“Un ascolto che vuole suscitare Speranza”

Il mese di settembre segna l’avvio del secondo anno del Cammino sinodale anche per la nostra Chiesa diocesana. Un anno che dovrà inevitabilmente ancora fare i conti con le conseguenze della pandemia di Covid-19 e le difficoltà economiche che la guerra in Ucraina sta portando in tante famiglie.Di tutto questo, come ormai tradizione alla ripresa del percorso pastorale, ne abbiamo parlato con l’arcivescovo Carlo.

Partiamo dal Sinodo. Si è conclusa nel mese di giugno la prima fase (quella dell’ascolto). Che bilancio possiamo trarre? Quali saranno i prossimi passi? Dalla consultazione nelle parrocchie emerge la voglia di partecipazione attiva del laicato ma anche – mi pare siano stati soprattutto i giovani a rilevarlo – la preoccupazione che veramente “qualcuno ci ascolti”. Come fare perché il Sinodo possa davvero fecondare la vita della nostra Chiesa?Il primo anno del cammino sinodale, percorso che impegna la nostra Chiesa unitamente alle altre diocesi italiane, si è rivelato in parte una sorpresa. La pandemia che ha continuato a bloccarci durante i mesi dello scorso inverno sembrava rendere impossibile attuare una fase di ascolto di varie persone e realtà. Non è stato così e ritengo doveroso ringraziare l’équipe sinodale diocesana e quanti hanno aderito all’invito di partecipare per la bella esperienza realizzata, come risulta dalla sintesi diocesana che ha raccolto i risultati dell’ascolto. Un grande grazie anche ai docenti di religione e soprattutto ai ragazzi che si sono lasciati interpellare. Come Chiesa di Gorizia non vogliamo deludere le attese di chi si è fidato e ha dialogato con noi. Il secondo anno del cammino sinodale vuole essere ancora di più caratterizzato dall’ascolto, ma un ascolto che offre attenzione, condivisione, invito a partecipare. Un ascolto che vuole suscitare speranza e cogliere nel cuore degli interlocutori i segni di un’attesa e anche di un desiderio di bene e di verità. Lo attueremo, sempre in comunione con la Chiesa italiana, riferendoci a “quattro cantieri” in cui incontrare e ascoltare le persone: quello dell’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi e degli adulti; quello dei diversi “mondi” con cui la comunità cristiana è di solito meno in contatto (il mondo della povertà, del lavoro, della scuola, dell’arte, ecc.); quello delle strutture e degli organismi di partecipazione (i consigli di unità pastorale o parrocchiali); quello dei ministeri e incarichi ecclesiali.Un lavoro impegnativo si prospetta per la nostra diocesi nel nuovo anno pastorale, ma potrà certamente far crescere le nostre comunità rendendole più aperte, più accoglienti, più attente alla complessa realtà che ci è dato di vivere. In una parola, più evangeliche.

La pandemia di Covid pare per il momento essere alle spalle quanto a conseguenze sanitarie ma cammina ancora al nostro fianco e già segna il nostro futuro se pensiamo alle sue conseguenze sociali ed economiche. Papa Francesco ci ha più volte ammonito che non abbiamo il diritto di “sprecare” quanto vissuto in questi due anni: cosa significa, concretamente, tutto ciò?Purtroppo alla pandemia, che pare non volerci lasciare troppo presto, si sono aggiunte la guerra, la crisi climatica, la crisi energetica, l’inflazione. Tutte realtà che hanno e avranno una ricaduta pesante anche sulla nostra società. I momenti più duri della pandemia ci hanno insegnato, come spesso ricordato da papa Francesco, che siamo tutti sulla stessa barca; hanno fatto emergere una sostanziale unità della nostra società, una grande e condivisa disponibilità alla solidarietà in particolare verso coloro che sono in difficoltà; hanno dimostrato che nelle persone, nelle famiglie, nelle varie realtà è presente una forza non scontata di reagire con coraggio e speranza. Tutto ciò non va sprecato, ma vissuto con altrettanta convinzione nei mesi non facili che ci attendono. Mi auguro che sia così.

Nella Sua omelia della messa crismale, lo scorso Giovedì santo, Lei evidenziava la presenza di “ostacoli e difficoltà nel vivere un presbiterio riconciliato e capace di testimoniare la pace”. Fra i suggerimenti che dava c’era quello dell’”autoironia,… accompagnando il sorriso con uno sguardo di simpatia e di disponibilità ad accogliere l’altro anche quando non ne condividiamo idee ed atteggiamenti”. Cosa c’è alla base di questo sentimento di “malstare” che Lei ha rilevato? Quanto il laicato può aiutare il presbiterio a riconquistare quello “sguardo di simpatia” fra confratelli? Quale importanza assume anche in tal senso la “diocesanità” su cui avete riflettuto durante il recente incontro di aggiornamento dei sacerdoti della diocesi a Torreglia?Partirei proprio dall’esperienza di Torreglia, questa località vicina a Padova, dove con un numero significativo dei nostri sacerdoti abbiamo trascorso tre giorni confrontandoci con il vescovo e alcuni sacerdoti di quella diocesi sul tema dell’educazione alla diocesanità. Sono state giornate molto intense e significative, compreso il pomeriggio trascorso nella abbazia di Praglia, che hanno fatto sorgere in molti il desiderio di vivere con più frequenza e partecipazione momenti di fraternità presbiterale per confrontarci sulla parola di Dio, pregare insieme, riflettere sulle tematiche pastorali, conoscerci meglio e, perché no?, anche sorridere di noi stessi non prendendoci troppo sul serio. Perché comunque è il Signore che salva il mondo, noi – preti e laici – siamo solo chiamati a collaborare con Lui in serenità e pace. È difficile dire quali siano stati i motivi di una certa fatica emersa nel presbiterio negli ultimi mesi. Più facile e alla fine più importante individuare i rimedi per crescere in una maggiore conoscenza e stima reciproca, una spiritualità più intensa, una più ampia condivisione e attuazione delle scelte pastorali. La strada individuata a Torreglia è quella giusta, comprese le idee lì emerse su un alleggerimento degli impegni pastorali. Su questo ho scritto nei giorni scorsi una lettera a tutti i presbiteri che lavorano in diocesi. I fedeli laici possono aiutare molto i sacerdoti con la loro preghiera, l’affetto sincero e ricambiato, la condivisione dell’impegno pastorale. E anche vivendo un attaccamento alla propria comunità che non sia “campanilismo” o estraneità al cammino della diocesi. La Chiesa in cui siamo inseriti non è la parrocchia o l’aggregazione ecclesiale, ma la diocesi con il vescovo, pastore e garante della comunione con tutte le altre Chiese particolari dentro l’unica Chiesa del Signore.

Questi ultimi sei mesi sono stati profondamente segnati dalla guerra scoppiata in Ucraina a seguito dell’invasione russa. La voce di papa Francesco è una delle poche che si levano senza sosta per invocare la ricerca della pace mentre sembra quasi che l’opinione pubblica italiana (ed anche parte del mondo cattolico) vedano nelle armi l’unica possibile strada per la soluzione del conflitto. Nella Fratelli tutti, papa Francesco ammonisce che “Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze” ed invita: “Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro”. Perché è così difficile accettare questa sfida al dialogo? Ma Le chiedo anche: che tipo di pace va ricercata?Il tema della guerra e della pace è una questione molto impegnativa e complessa. Un conto è viverla da lontano, un altro essere immersi in un conflitto. Occorre essere attenti alle facili soluzioni auspicate partendo da visioni semplicistiche. Non si costruisce la pace solo con un generico appello o con qualche marcia pacifista, ma neppure favorendo e approvando una rincorsa al riarmo senza fine. Quando la violenza di una guerra prende avvio, non si sa quando può finire. Si innesca tutta una serie di atteggiamenti e di scelte che si rafforzano a vicenda e allontanano sempre più dalla pace: la rottura dei trattati, la chiusura al dialogo, le sanzioni e i ricatti economici, i pregiudizi negativi tra popoli, l’isolamento delle nazioni, la chiusura dei confini, ecc. Occorre riaffermare il diritto alla difesa di chi è aggredito e può e spesso deve esercitare alle condizioni previste dalla dottrina della Chiesa (che chiamerei non della “guerra giusta”, perché una guerra non è mai giusta, ma della “resistenza legittima” all’aggressore con mezzi proporzionati e con la fondata speranza di ristabilire la giustizia e la pace e di non fare più danni di quanti creati dall’aggressione). Ma occorre non chiudere mai la possibilità di un dialogo, di un compromesso o, meglio, di una mediazione alta tra diritti, interessi e attese dei popoli. Si richiede molta vigilanza sulle emozioni: un popolo e non solo le persone ha emozioni, che non devono mai scivolare nel pregiudizio, nel disprezzo e persino nell’odio dell’altro. È necessaria tanta compassione verso chi soffre, chi è ferito, chi muore e non importa se sta dalla parte giusta o da quella sbagliata. Infine, ma non da ultimo, non può mai mancare la preghiera che chieda al Signore di avere misericordia per i nostri peccati e di donarci la sua pace.

Il 25 settembre gli italiani saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Stiamo vivendo una campagna elettorale particolare e non solo per il tempo estivo in cui si svolge. Al di là degli slogan, quali sono gli impegni che in un momento così economicamente e socialmente delicato come elettori dovremmo richiedere alla Politica?Le elezioni sono un momento importante per il cammino democratico di un popolo, di una nazione. Un cammino che dovrebbe valorizzare maggiormente la partecipazione di tutti. La democrazia non può limitarsi a qualche elezione ogni tanto, ma chiede ascolto, coinvolgimento, confronto tra le persone e le varie organizzazioni che ne raccolgono gli ideali, i progetti e anche gli interessi. La politica dovrebbe favorire di più tutto questo. Ho l’impressione che anche il mondo cattolico sia carente in questa azione di realizzazione della democrazia: non ci si può limitare ad auspicare la nascita o la rinascita di un ipotetico “partito cattolico” (che, per altro non c’è mai stato in quanto tale) o a proporre un elenco di valori senza dire come attuarli e senza essere di fatto disponibili a farlo impegnandosi in prima persona. In ogni caso quello che mi sentirei di chiedere a chi si è reso disponibile all’impegno politico (impegno da rispettare e non da svalutare, se è un impegno serio e sincero) sono sostanzialmente due attenzioni. La prima è al bene comune, da perseguire partendo dai programmi propri di ogni realtà in competizione, ma con la disponibilità al confronto e alla mediazione. Un vero programma politico non può limitarsi a proporre interessi di una parte della società, ma deve essere attento a tutti: certo a partire da una propria parziale visione, ma avendo di mira il bene complessivo della nazione. La seconda attenzione da avere è verso chi è più in difficoltà: i poveri, i disoccupati, le famiglie con basso reddito, gli immigrati, i giovani senza prospettive, i malati, ecc. Tutte persone che non devono essere illuse con promesse mirabolanti e irrealizzabili, ma alle quali va dato aiuto concreto e diretto, ma direi soprattutto per le quali va costruita una società più giusta, più solidale, più attiva, più capace di intraprendere. Il tutto dentro un contesto di collaborazione con le altre nazioni europee e con un impegno di dialogo e di pace con tutti i popoli. 

Si avvicina sempre più l’appuntamento del 2025 con Nova Gorizia capitale europea della cultura insieme a Gorizia. Come connotare questi due anni perchè questo appuntamento non sia un semplice contenitore pieno di eventi fine a se stessi ma possa rappresentare davvero un’opportunità per questi nostri territori? In tale ambito, quale ruolo possono ed intendono svolgere le Chiese di Gorizia e Koper Capodistria? L’appuntamento del 2025 è un’occasione unica per Gorizia. Non so quanta consapevolezza ci sia in merito. Certamente non un’occasione per realizzare strutture o avviare attività di largo respiro: non ce ne sarebbe ormai il tempo. Però dovrebbe esserci ancora la possibilità perché Gorizia si interroghi su “cosa vuole fare da grande”. Una domanda alla quale da 30 anni, mi sembra, non ha saputo dare una risposta. Eppure la strada per rispondervi sarebbe tracciata dalla sua storia – spesso tragica e dolorosa, ma ricca di prospettive -; dalla sua posizione su un “confine/non confine” come l’essere capitale europea della cultura con Nova Gorica evidenzia; dalla sua ricchezza di arte e cultura; dalla sua bellezza paesaggistica e, perché no, dalla sua tradizione religiosa. Occorrerebbero delle scelte concrete, come per esempio impegnarsi da parte delle due città affinché dall’una e dall’altra parte almeno si conosca e si comprenda la lingua e la cultura diversa dalla propria.Circa poi la tradizione religiosa, nel senso pieno del termine, mi pare che non le venga data la necessaria attenzione in vista dell’evento del 2025. Come Chiese sorelle di Gorizia e Koper/Capodistria non vogliamo però fermarci al lamento, ma contribuire impegnandoci insieme su tre linee: favorire una reale comunione, sulla base delle radici comuni che risalgono fino alla Chiesa madre di Aquilea, tra le diverse comunità, lingue e culture; lavorare, approfittando della posizione privilegiata al confine tra mondo latino e mondo slavo (un confine che è in realtà una mescolanza e condivisione), per aiutare la crescita di una cultura europea basata su valori quali la centralità della persona, il rispetto della vita, il dialogo, l’accoglienza, la pace, la solidarietà (appunto Nova Gorica/Gorizia insieme “capitale della cultura europea” più che solo “capitale europea della cultura”); infine offrire ai giovani dei percorsi tra le due città riferiti alla fede, alla carità, alla cultura, alla storia che li veda protagonisti. A loro, da entrambe le parti del confine, dobbiamo consegnare il patrimonio davvero grande della nostra città: se noi non siamo stati in grado di valorizzarlo pienamente, almeno non disperdiamolo e affidiamolo con speranza alle future generazioni.