Sud Sudan: un popolo e una Chiesa in cerca di libertà

Il Sud Sudan – visitato da papa Francesco proprio ad inizio di questo 2023 – è una terra che ha conosciuto a lungo il grave dramma della guerra civile. Uno stato “giovane”, indipendente soltanto dal luglio del 2011, che sta ancora cercando una sua strada verso la stabilità e la riappacificazione.Approfittando della chiusura nei giorni di Pasqua delle Università pontificie, hanno prestato servizio pastorale in alcune parrocchi della città di Gorizia, padre George e don Charles, entrambi sud sudanesi attualmente studenti alla Facoltà di Filosofia dell’Università Pontificia Urbaniana di Roma e che con Gorizia hanno instaurato uno stretto legame grazie al compianto don Diego Bertogna, che li sosteneva negli studi, e alla parrocchia di Sant’Anna, che li da subito accolti come fratelli. Abbiamo colto l’occasione della loro visita per parlare del loro percorso di fede, di cosa li ha guidati nella loro scelta e nella loro formazione, e di come sia oggi la vita all’interno del Paese africano.

Il percorso di padre George“Vengo dalla diocesi di Tombura-Yambio, al confine con la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica Centraficana – ci racconta -. Sono nato in una famiglia cristiana, sposata nella Chiesa; mio papà lavorava come falegname nella nostra parrocchia, pertanto sono sempre stato a contatto con la realtà cattolica.Sono nato nel 1980, negli anni in cui si sviluppò la guerra civile tra Sud e Nord del Sudan. Al compimento dei 13 anni rischiavo di essere preso dalle milizie per andare in guerra; mio padre si oppose a questo e fece scappare me e i miei fratelli nella foresta. Era il periodo delle piogge, la strada non c’era, vagammo per più di 3 giorni, cibandoci con i frutti che riuscivamo a trovare lungo il cammino, per arrivare in Congo. Giungemmo in una cittadina, senza sapere nemmeno in quale parte del Paese fossimo finiti dopo tanto vagare nella foresta. Rimanemmo lì per un anno come rifugiati ma la vita per noi era troppo complicata; insieme ai miei fratelli decidemmo di rientrare in Sud Sudan e vivere con i nostri genitori, nella nostra casa, nonostante la guerra in corso.Il nostro villaggio si trovava già da qualche tempo senza la guida di un sacerdote; fu dopo poco che arrivò un nuovo parroco il quale, vedendomi sempre vicino alla parrocchia, sempre pronto a dare una mano, mi propose di andare in Repubblica Centrafricana, dove la nostra diocesi aveva aperto un Seminario minore, per poter studiare. Ho trascorso lì tre anni e successivamente, su indicazione del vescovo per completare il percorso di studi, mi trasferii in Uganda, dove ho trascorso 5 anni: era la prima volta che vivevo in un Paese dove non c’era la guerra, dove tutto era calmo!Appena conclusa la scuola, sono ritornato in Sud Sudan, che si avviava in quegli anni verso la pace. Anche stavolta su indicazione del nostro vescovo venni inviato per due anni a studiare Filosofia al Seminario maggiore di Khartoum e, subito dopo, a Roma per studiare Teologia. Era il 2009.È stato lì che ho incontrato per la prima volta don Diego Bertogna, il quale volle sostenere me e i miei 2 compagni di studi nel nostro percorso. Venne a trovarci a Roma, a quel tempo nemmeno parlavamo ancora italiano, non capivamo tutto ma sapere e vedere che un sacerdote era venuto lì, da lontano, proprio per noi, ci fece immenso piacere e ci diede grande forza.Durante le vacanze del 2010 venni con i compagni per la prima volta a Gorizia, ospitato presso la Comunità sacerdotale e inserito nella parrocchia di Sant’Anna, dove pregavamo insieme alla comunità. È iniziata così una “tradizione” e durante il nostro periodo di studi venivamo sempre qui per le vacanze.Subito dopo la Licenza in Teologia, sono stato richiamato in patria dal mio vescovo, che aveva bisogno di me in Diocesi; dopo 9 mesi venni ordinato sacerdote e mi fu affidata una parrocchia in una zona isolata, dove c’erano pochi cristiani e si celebrava nella lingua madre del posto. Dopo un anno, mi attendeva una nuova esperienza: il vescovo mi volle amministratore di una nostra casa, in Uganda, che accoglie sacerdoti anziani e ammalati; ho trascorso con loro 4 anni.Dopo questo compito il vescovo mi chiese di ritornare in Italia, per prendere la Licenza in Filosofia, della quale nella nostra realtà c’è grande bisogno: servono infatti insegnanti per aiutare i giovani seminaristi che devono diventare sacerdoti.In tutto questo mio percorso, Gorizia è sempre stata nei miei pensieri: sentivo e sento di avere qui una seconda famiglia, mi trovo bene, voglio bene a questa comunità e sento che loro me ne vogliono.Sono riuscito ad incontrare don Diego prima della sua scomparsa, abbiamo parlato un po’, è stato bello poterlo salutare”.

La scelta di don Charles“Io provengo dalla parte sud del Paese, al confine con l’Uganda, da una famiglia cristiana ma mista: mio papà era protestante, mia madre cattolica. Sono nato nel 1993, durante la guerra; i primi anni della mia vita li ho trascorsi in un campo profughi, siamo tornati soltanto nel 2000.Nel 2001 ho iniziato la scuola, insieme con mio fratello e mia sorella. Abbiamo vissuto dei problemi famigliari dopo la separazione dei miei genitori e sono quindi cresciuto con la famiglia di mia zia, che ha potuto pagare i miei studi, dandomi la possibilità di imparare molto nella scuola, vivendo come tutti i bambini.In quegli anni ho vissuto in convitto, dal lunedì al venerdì, perché la scuola cattolica che frequentavo era lontana dal villaggio dove abitavo. Ho conosciuto in quel periodo la realtà dei sacerdoti comboniani, che avevano una missione nei pressi del villaggio; un loro sacerdote si occupava in particolare della Pastorale giovanile e lì ho avuto la possibilità di avvicinarmi alla vita di questa comunità. Ricordo che un giorno ci coinvolse come chierichetti per il servizio durante la messa: rispondemmo in moltissimi alla sua chiamata, eravamo circa 60 tra bambini e ragazzi! Dovette dividerci in tre turni per poterci gestire tutti!Quando stavo frequentando quello che in Italia sarebbe l’ultimo anno della scuola media, ci chiesero se qualcuno desiderasse entrare in Seminario. Io però dovevo ancora dare il mio esame di fine anno, che si doveva svolgere sia in Uganda che in Sud Sudan per essere certi della sua validità e per il quale dovevo pagare una bella somma per l’iscrizione. Per l’esame in Uganda, nonostante molte resistenze a causa dei costi elevati, venni aiutato dalla famiglia di mia zia ma non avevo un fondo economico per coprire anche le spese dell’esame in Sud Sudan. Fu allora che avvenne un fatto che diede veramente una svolta alla mia vita e mi fece scegliere il mio futuro percorso: una sera, dopo la messa del rosario, mi trovavo fuori dalla chiesa con altri tre ragazzi e un paio di adulti, ci stavamo tutti preparando per i sacramenti; arrivò un uomo, uno di quelli che in Africa vengono considerati “matti” perché vivono soli per la strada, non hanno nulla, a volte nemmeno i vestiti. Venne direttamente da me e mi presentò dei soldi: era esattamente la cifra che chiedevano alla scuola, non di meno, non di più. Ovviamente io rifiutai quell’offerta ma lui insistette molto, voleva che quei soldi li prendessi io. Li accolsi e corsi a pagare la quota per il mio esame. Terminati gli esami, chiesi al mio parroco di poter entrare in Seminario minore.Ho proseguito poi con il percorso in Seminario maggiore. In quegli anni ho vissuto anche momenti molto duri, con la morte di mio fratello prima e mio padre poi, ma con l’aiuto del Signore sono riuscito a superarli e a proseguire la mia strada, anche con l’aiuto delle persone che Lui metteva vicino a me. Ho trovato la forza di continuare e di andare avanti.Una volta finiti i tre anni di studio in Filosofia, il vescovo mi volle inviare a Roma per continuare con la formazione in Teologia. Al mio secondo anno di studi ho conosciuto, tramite il rettore, don Diego Bertogna e sono venuto per le mie vacanze a Gorizia, dove la comunità di Sant’Anna ha accolto me e i compagni con grande gioia e ospitalità, diventando per me una vera casa. Sono arrivato in una comunità che ho scoperto essere una famiglia, dove tutti mi vogliono bene, in primis proprio don Diego, sacerdote con il cuore grande, che ci ha mostrato la via e da cui ho imparato cosa vuol dire veramente essere prete, andando in mezzo alle persone. Mi ha mostrato e dato tanto.La vita in Sud Sudan e il ruolo della Chiesadon Charles“Vivo fuori dal mio Paese dal 2017 ma posso però basarmi su quanto mi viene riportato da chi sta lì oggi.La situazione è difficile in sé a causa dei nostri capi politici – anche se a me non piace usare la parola “capo”, preferisco definirli “comandanti”: il capo è colui che guida e mostra la strada, per loro non è così, perché invece di mostrare una strada dove possiamo vivere in pace, creano le divisioni. Per questo motivo dico che la situazione è complicata.C’è la possibilità di avere la pace, come tutti i Paesi, ma non c’è in chi ci governa il desiderio di avere la pace. Questo diventa un problema per il popolo, che si trova a migrare nei Paesi vicini (Congo, Sudan, Uganda, Etiopia, Kenya…); dal 2016 ad oggi in molti non hanno ancora potuto ritornare in patria. In ogni caso, all’interno di questa situazione difficile, ci sono persone che si alzano ogni mattina con il desiderio di andare avanti: la situazione non va bene ma esse nutrono la speranza che domani sarà migliore.Per quanto riguarda la presenza delle comunità cristiane, essa c’è, è vivace, ma la voce di queste comunità non viene ascoltata: i comandanti vogliono avere il pieno consenso e quando queste comunità dicono la verità, essi non lo accettano e si rischiano tensioni. Molte sono le persone che vengono arrestate per aver detto qualcosa di contrario al loro pensiero e agire.Queste persone e queste comunità però non smettono di parlare, continuano a far sentire la loro voce, a gridare forte, e magari un giorno verranno ascoltate”.

padre George“Parlare della vita sociale nel nostro Paese non è facile: è un Paese nuovo, dove avevamo tanta speranza che, dopo la separazione, avremmo avuto tutta la libertà; invece quelli che erano capi durante le guerre, ora vogliono diventare ognuno il presidente. Il Sud Sudan è un nuovissimo Paese di questo mondo ma è anche il primo ad avere 5 vice presidente! Una cosa strana e mai sentita prima.Va così tenuto presente che ogni vice presidente ha i suoi soldati, che il Paese è suddiviso in Stati e che ogni Stato ha un governatore con i suoi soldati… Capite bene che la situazione è molto complicata, basta un nonnulla per far scattare tensioni e piccole guerre.Per il resto a livello sociale manca ancora tutto: i Servizi Sociali, l’energia elettrica, l’acqua potabile, la viabilità…, la criminalità è molto alta e ci sono ancora dei gruppi di ribelli.Nonostante tutto questo la Chiesa va avanti, il numero di cristiani cresce e le chiese sono sempre piene. I sacerdoti in questo momento sono pochi ma anche le vocazioni stanno crescendo, c’è molta speranza. Nella Chiesa del Sud Sudan c’è la gioia, i cristiani vi possono trovare la pace.È poi un contributo fondamentale nel coprire tutti i servizi che mancano, come ad esempio quello sanitario: dove mancano le strutture statali, spesso sono quelle ecclesiastiche a “riempire la mancanza”; da noi ancora si muore per malattie “semplici” o di parto, perché non c’è possibilità di essere curati e assistiti.Ci sono poi diversi gruppi che aiutano e collaborano per trovare la pace, tra questi esiste anche un gruppo misto, che comprende cristiani e musulmani, in continuo dialogo.In Sud Sudan la religione maggiormente diffusa è quella Cristiana cattolica, che è anche la fede più “anziana” sul territorio. I musulmani sono presenti: sono gruppi che dopo la divisione non hanno voluto migrare in Sudan ma rimanere nel Sud Sudan; molti di essi sono sud sudanesi ma sono presenti anche alcuni nord africani, che si trovano nel Paese per motivi lavorativi.Nel Paese non ci sono divieti, c’è libertà di professione per tutte le fedi, pertanto i problemi non sussistono tra i diversi Credo. Il problema grosso è invece come predicare, evangelizzare in un Paese come il Sud Sudan. Ogni giorno un sacerdote, nel dire Messa, deve essere attentissimo con le parole che usa. La Chiesa “ci aiuta ad aiutare” i cristiani ma non possiamo solo prendere i dogmi per parlare ai fedeli, l’omelia deve essere qualcosa che tocca le vite delle persone. Quando predichiamo troviamo tanta difficoltà perché siamo costantemente sotto controllo, che a volte diventa davvero pericoloso. Io stesso sono stato arrestato ben due volte: la prima quando ho affermato che i vari gruppi armati sud sudanesi non agiscono per il bene della popolazione, compiendo spesso crimini e diffondendo la paura. Mi hanno messo in isolamento e poi fatto un lungo interrogatorio. La seconda volta invece, ad una Messa era presente il governatore; quel giorno c’era la Festa della Famiglia, stavo dicendo un’omelia su di essa, sul rispetto reciproco, sull’importanza del rispettare le proprie compagne… Non potevo sapere che proprio quel giorno il governatore aveva litigato con la moglie! Eppure lui asserì che l’omelia era stata detta per mettersi contro di lui; un paio di giorni dopo venni arrestato e mi minacciarono.Parlai con il mio vescovo perché, dal mio punto di vista, non è possibile vivere una vita così; come sacerdote ho necessità di dire il vero, quello che accade, richiamare a ciò che vedo. Se è il Governo a dirmi come predicare, per me non è possibile. Forse questo è uno dei motivi per i quali mi ha inviato qui in Italia, per avere l’opportunità di cambiare tutto questo.Io però non sono da solo, tanti sacerdoti hanno questi problemi, subiscono arresti, minacce, attentati… La Chiesa è libera e cerca di fare le cose per bene ma non abbiamo la piena libertà di comunicare il nostro messaggio ai nostri fedeli. La vita a volte diventa molto difficile”.