Sotto la stessa Parola

Fin dall’inizio della sua missione Gesù ha la consapevolezza di essere mandato ad annunciare il Regno di Dio. Un annuncio il cui contenuto l’evangelista Marco presenta in termini molto sintetici anche nel suo appello alla conversione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15), mentre l’evangelista Luca – lo abbiamo ascoltato – esplicita con riferimento all’antica profezia di Isaia. Il Regno consiste allora nel portare ai poveri il lieto annuncio della salvezza, proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi e per tutti un tempo di grazia. In questa esplicitazione del contenuto del Regno non viene nominata la pace, che però, stando al Vangelo di Luca che quest’anno ci accompagna, viene citata diverse volte in collegamento con le parole e le azioni di Gesù. Le ricordo brevemente.

Anzitutto già prima della nascita di Gesù è Zaccaria nel suo cantico a parlare della via della pace, che viene indicata da Colui che è il sole che sorge dall’alto. Poi sono gli angeli a cantare a Betlemme la pace agli uomini amati dal Signore. Anche Simeone parla di pace chiedendo al Signore di andare appunto in pace perché finalmente ha visto la luce che è Cristo. La pace poi è il dono fatto dal Signore a chi riceve da Lui la salvezza: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» dice alla peccatrice e anche all’emorroissa (cf Lc 7,50; Lc 8,48). La pace costituisce inoltre la prima cosa che devono offrire i discepoli inviati in missione appena entrano in una casa: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi» (Lc 10,5-6). C’è poi uno strano detto di Gesù che sembra contraddire il suo annuncio di pace: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione» (Lc 12,51). Ma il contesto di queste parole è quello che esprime l’ansia di Gesù di portare il fuoco del suo Vangelo sulla terra e l’angoscia di ricevere il battesimo della passione che lo attende. Proprio avvicinandosi alla croce, Gesù piange su Gerusalemme perché non ha accolto la pace: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi» (Lc 19, 42). La pace, infine, è il dono del Risorto: anche nel Vangelo di Luca e non solo in quello di Giovanni, il Risorto apparendo ai discepoli per prima cosa dice: «Pace a voi!» (Lc 24,36).

La correlazione tra la pace e l’annuncio e l’azione di Gesù è quindi molto forte. Ne percepiamo tutta l’importanza in questo tempo di guerra, che tutti ci preoccupa e ci angoscia. Anche noi siamo mandati come i discepoli a portare per prima cosa la pace, a offrirla a prescindere che essa sia accolta o rifiutata. Portare la pace, però, non è questione di parole. Anzi, in queste settimane stiamo sentendo persino troppe parole sulla pace e sulla guerra, spesso discorsi molto autoreferenziali e poco utili per un reale impegno di pace. La pace è anzitutto questione di testimonianza: possiamo annunciare pace e riconciliazione solo se noi stessi siamo in pace e riconciliati.

Lascio a ciascuno di noi il riflettere nella preghiera e nella verità davanti al Signore sul nostro essere personalmente in pace con Lui. Vorrei invece soffermarmi sul nostro essere in pace e riconciliati come presbiterio diocesano. Non vorrei presentare in questa occasione un’analisi della nostra realtà che con sincerità ne evidenzi luce ed ombre. Potrebbe essere il tema di un prossimo consiglio presbiterale, bene preparato nei decanati e vissuto con la metodologia sinodale che stiamo imparando a usare. In quella sede si potrebbe anche cercare di enucleare quali sono gli ostacoli e le difficoltà nel vivere un presbiterio riconciliato e capace di testimoniare la pace, difficoltà che – non dobbiamo nascondercelo – sono emerse anche in alcune circostanze recenti e che esprimono la fatica di vivere con pienezza la comunione nel presbiterio. Non dovrebbe, però, mancare uno sforzo per comprendere quali possono essere invece gli elementi che favoriscono pace e riconciliazione. Vorrei ora solo offrire qualche spunto su questo ultimo punto come avvio di una riflessione che spero realmente comune e condivisa.

Che cosa ci può allora aiutare a essere e a crescere come un presbiterio riconciliato e in pace? Indicherei, tra i tanti, quattro elementi che ritengo importanti.

Anzitutto è decisivo il sentirci come presbiterio – presbiteri uniti con il vescovo – incaricati dal Signore ad amare e a servire questa porzione di popolo di Dio che è la Diocesi di Gorizia. Come presbiterio, prima ancora che come singoli. L’ho già affermato in altre occasioni e ne sono profondamente convinto: ognuno di noi prima di essere parroco, vicario parrocchiale, cappellano, incaricato di un ufficio di curia, insegnante, ecc. è parte di un presbiterio unitario e il compito che riceve dal vescovo lo deve esercitare anzitutto a nome del presbiterio condividendo le stesse linee di azione pastorale. Un presbiterio in cui i rapporti dovrebbero essere quelli che normalmente si istituiscono in ogni comunità umana, a cominciare dalla famiglia, dove si esercita la paternità e la fraternità nella condivisione di un unico obiettivo che è l’annuncio del Regno. Non sempre è facile né per il vescovo, né per i presbiteri. In ogni famiglia ci possono essere rapporti complicati, tensioni, persino litigi, ma comunque si rimane in essa. Il numero ridotto dei sacerdoti ci deve stimolare a conoscerci e a volerci ancora più bene. «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10), ci ricorda San Paolo. Il contrario è una grande contro-testimonianza e non favorisce certo la crescita di vocazioni al presbiterato. Esiste un’evidente contraddizione tra noi che chiediamo alla politica di fare pace – e ci scandalizziamo giustamente quando ciò non avviene – e noi che nel nostro ambito presbiterale spesso non siamo capaci di viverla.

Un secondo elemento decisivo per essere presbiteri di pace – e la cosa vale anche per i diaconi – è dato da essere tutti sotto la stessa Parola. Il momento che ricordo con più commozione della mia ordinazione episcopale, e che rivivo con intensità ogni volta che ho la grazia di partecipare all’ordinazione di un confratello, è quello in cui due diaconi tengono sopra la testa dell’ordinando il libro del Vangelo. Non solo il Vescovo, però, ma tutto il presbiterio è sotto il Vangelo, sotto la Parola di Dio. Ed è significativa l’usanza che il libro del Vangelo o delle Sacre Scritture venga collocato sul feretro dei vescovi e dei sacerdoti defunti. Dobbiamo condividere l’ascolto della stessa Parola, in particolare quella che viene proclamata ogni giorno dalla liturgia,dobbiamo conformare su di lei i nostri criteri di giudizio e farci guidare dallo Spirito Santo nel discernere ciò che vale alla luce delVangelo. Sapere che abbiamo gli stessi principi e criteri che derivano dalla medesima Parola, è un punto di partenza fondamentale per camminare insieme pur nella legittima diversità di sottolineature e di sensibilità. Ma il quadro di riferimento è lo stesso per tutti ed è dato dal Vangelo. Ed è sempre il Vangelo che è capace di purificare quelle negatività che accompagnano la personalità di ognuno di noi e che ci impediscono di vivere rapporti riconciliati. Un cammino lungo e paziente guidato dallo Spirito Santo, ma che porta frutti di pace. Sempre il riferimento al Vangelo, ci permette di riconoscere nei nostri confratelli i doni che ciascuno ha ricevuto dal Signore, vere e proprie “perle preziose”che spetta a tutto il presbiterio valorizzare al servizio del popolo di Dio, insieme con il Vescovo che, come capo di questa famiglia, è chiamato a esercitare la sua paternità anche in questo.

I primi due elementi che ho indicato sono quelli fondamentali per essere un presbiterio riconciliato e in pace e quindi capace di testimoniare la pace. Aggiungo altri due elementi che ci possono aiutare a superare i momenti difficili di tensione e incomprensione. Li ricavo entrambi dalla Scrittura.

Il primo ci viene indicato dall’episodio della caverna nella lotta tra Davide e Saul. Lo ricordate: Davide è nascosto nella caverna con i suoi, Saul vi entra per un bisogno fisico – è quindi in un momento di fragilità –, i compagni di Davide insistono perché lo si uccida, Davide si limita a tagliargli il lembo del mantello e giustifica così il suo agire: «Mi guardi il Signore dal fare simile cosa al mio signore, al consacrato del Signore, dallo stendere la mano su di lui, perché è il consacrato del Signore»(1Sam 24,7; un episodio simile al cap. 28 con Davide che raggiunge di nascosto Saul che dorme nell’accampamento). Ovviamente nel presbiterio non si tratta di uccidere un confratello, ma magari a parole e con giudizi taglienti e ingenerosi qualche rischio ci può essere (ricordo quanto detto da Gesù: «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geenna»: Mt 5,22). Ma ognuno di noi è comunque “consacrato del Signore”, dobbiamo sempre ricordarlo. Santo o peccatore (e lo siamo tutti), generoso o pigro, estroverso o riservato, progressista o tradizionalista, ecc. un presbitero, un diacono è in ogni caso una persona che il Signore ha chiamato, che ha detto sì a questa vocazione, che ha ricevuto il dono inestimabile del sacramento dell’ordine. Se questo non basta per chiedere rispetto e attenzione reciproci, non saprei cosa d’altro.

Infine un ultimo elemento che può aiutare a superare le difficoltà tra di noi ci viene suggerito da una frase dell’apostolo Paolo, tratta dal cap. 7 della prima lettera ai Corinti: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!» (1Cor 7,29-31). Il tempo è breve, la figura del mondo passa, alla fine restano – per citare un’altra pagina di Paolo – la fede, la speranza e soprattutto la carità (1Cor 13,13). Tutto il resto è relativo davanti all’eternità e forse non vale la pena prendersela più di tanto, soprattutto quando si va avanti negli anni e ci si avvicina all’incontro definitivo con il Signore (e la maggior parte di noi non è certo giovane…). Un dono che possiamo chiedere per vivere questa capacità di relativizzare che può aiutarci a superare contrasti, risentimenti, piccinerie è quello dell’autoironia, di sorridere un po’ di noi stessi e degli altri, accompagnando il sorriso con uno sguardo di simpatia e di disponibilità ad accogliere l’altro anche quando non ne condividiamo idee e atteggiamenti. Non un sorriso che banalizza tutto, ma un sorriso riflesso del sorriso misericordioso e accogliente di Dio, un Dio che conosce le nostre miserie e fragilità, ma che ha già pronto il vino nuovo per la festa che non finirà mai. Una festa in cui potremo entrare se tutti insieme ci lasceremo avvolgere dal suo tenero abbraccio di Padre.