“Sia fatta la tua volontà”

Che cos’è la volontà di Dio? Come si manifesta, come si intuisce o la si può capire? Questo punto sembra il centro focale dell’esperienza religiosa. Nella vita cristiana, infatti, si è preoccupati di adeguarsi alla morale cattolica, di osservare le regole e i dogmi della Chiesa. Le molte buone cose da dire e da fare possono portare a dimenticare la più importante e fondamentale: compiere la volontà di Dio. I fatti che accadono,  poiché sembrano non essere conseguenza diretta delle azioni umane, possono essere attribuiti alla volontà di Dio. Anche quando qualcuno muore spesso si dice che era volontà di Dio. Non è così!La questione sulla quale ci si deve interrogare è se si stia veramente attuando la volontà di Dio oppure se si segua semplicemente un percorso religioso. Si potrebbe obiettare che nessuno può sapere che cosa Dio vuole da ogni essere umano, e invece proprio che un cristiano adulto ancora non lo sappia, porta a interrogarsi se i percorsi religiosi e spirituali che vengono proposti non siano stati fallimentari, dato che non conducono a centrare l’aspetto nucleare e fondamentale dell’esperienza di fede.La Scrittura risponde all’esigenza di individuare la “volontà di Dio” e come essa si possa realizzare. Nel Salmo 40 si trova la confessione di fede del salmista nei confronti di un Dio che salva, che libera. Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude (Sal 40, 2-3).Dopo essere stato liberato da questa situazione afferma: Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto, non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: “Ecco io vengo. Nel rotolo del libro su di me è scritto di fare la tua volontà: mio Dio questo io desidero; la tua legge è nel mio intimo” (Sal 40, 7-9).Il protagonista non se la sente di aderire all’esperienza religiosa basata sulla logica del sacrificio e dell’olocausto, ma ritiene che ciò che conta sia compiere la volontà di Dio. Egli vede la vita come realizzazione del piano divino. Non è la religione del sacro e del rito che interessa a Dio, ma che ognuno abbia la coscienza precisa della comprensione e dell’attuazione della sua volontà. Per Gesù la preghiera è il luogo più adatto, più proficuo, per coglierla.Le prime tre richieste del Padre Nostro: “Sia santificato il tuo nome, Venga il tuo regno, Sia fatta la tua volontà” vanno messe in relazione. Che cos’è la santificazione del nome se non la realizzazione del regno nell’attuazione della volontà divina? Che cos’è il regno se non la santificazione del nome nella realizzazione del piano di Dio? Che cos’è la volontà di Dio se non la santificazione del nome nella realizzazione del regno? Sono questi tre aspetti del medesimo impegno da parte di Dio sulla storia umana. Soltanto nel primo Vangelo canonico compaiono sei testi eccellenti centrati sul tema della volontà di Dio. Nel più grande discorso tenuto da Gesù sulla montagna e in cui è inserito il Padre Nostro, sono indicati i punti fondamentali dell’identità del discepolo. Alla conclusione si trova un testo stupefacente: Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli (Mt 7, 21).Gesù si posiziona contro una preghiera biascicata, piena di parole formaliste. L’espressione “ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” differisce da quella del Padre Nostro: Sia fatta la tua volontà per il verbo passivo. È Dio che in maniera autonoma e protagonistica attua il suo volere mentre all’essere umano resta solo il ruolo di spettatore, oppure quel verbo al passivo rimanda a un soggetto implicito? Chi deve attuare nella storia questa volontà: Dio o l’essere umano?Nella società e nella cultura vi è il luogo comune secondo cui la storia sia l’ambito in cui si rivela la volontà di Dio. Si deve rifiutare la visione che porta a credere che la volontà di Dio sia ciò che emerge nella storia. I fatti, gli avvenimenti, le situazioni, sia di segno positivo che di segno negativo, non sono la volontà di Dio: la storia umana è il risultato dei progetti umani, a volte anche dolorosi e drammatici. Altrimenti, chi vive situazioni di sofferenza corre il rischio di identificarli con il progetto divino, con l’inevitabile conseguenza dell’interrogativo su chi sia quel Dio che progetta il dolore per l’essere umano. Con questa svendita spiritualista del volere divino, superficialmente applicato ai contesti della vita, senza discernimento, non si rende un buon servizio all’immagine di Dio, allontanandolo dagli uomini più che avvicinarlo.Nei sei testi evangelici matteani la parola “volontà” è sempre unita all’appellativo “Padre”. L’accostamento non è fortuito o casuale, ma evidenzia come essa non possa essere scambiata per il fato inalienabile del mondo antico, la cui  visione religiosa e antropologica viene contraddetta dall’annuncio evangelico che unisce la volontà divina alla sua paternità. Il volere di Dio è sempre paterno, quindi scaturigine di bene e di positività, non fato inesorabile. Anche se il padre umano può essere  crudele e violento, quello divino nel Nuovo Testamento è sempre una figura massimamente positiva. Il Dio di Gesù Cristo non è un Dio dal volto oscuro, dagli atteggiamenti capricciosi, egoisti, come le divinità antiche.In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!” (Mt 7, 22-23).Questa critica è rivolta ai protagonisti delle grandi esperienze mistiche, miracolistiche. Sembrano campioni della fede, propugnatori di esperienze eccellenti e carismatiche, ma sono estromessi dalla comunione escatologica con il Signore. L’unico criterio invece per esserne inclusi è aver compiuto la “volontà del Padre”. Il meraviglioso, lo straordinario, che sembrano il vero conio dell’esperienza religiosa, in realtà si manifestano dovunque, in tutte le culture, e chi ne è il tramite non verrà premiato per esserne stato protagonista, ma solo per aver compiuto la volontà di Dio. L’atteggiamento di Gesù di fronte alla religiosità dei suoi tempi – barocca, dilatata, con  innumerevoli leggi, molte minuzie – consiste nella sua proposta di essenzialità, perché non si perda di vista l’obiettivo della comunione con Dio. “Colui che fa la volontà del Padre mio”… Non basta sapere quello che Dio vuole, bisogna anche farlo.In un testo “biografico” Gesù mette in rilievo come il rapporto con la sua famiglia sia secondario: Mentre egli parlava ancora alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: “Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti”. Ed egli, rispondendo a chi parlava, disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Mt 12, 46-49).Qui siamo di fronte a un cambiamento. La relazione più forte che Gesù vuole stabilire non è quella con la propria famiglia, ma con le persone che lo stanno seguendo. I discepoli compiono la volontà del Padre parallelamente a Gesù. La nuova famiglia è la comunità, che assolve a tutti i bisogni che prima venivano assorbiti dalle e nelle relazioni familiari. Sembra che Gesù abbia operato un’azione di sradicamento sociale, scalzando nella famiglia l’unica realtà costitutiva della società di allora, quella che poteva garantire l’incolumità e la sicurezza. Gesù invita i suoi discepoli ad abbandonarla e a sostituire i rapporti familiari con relazioni di qualità all’interno del nuovo gruppo da lui composto.La nuova relazione è basata non sulla medesima derivazione genetica, ma sull’essere uniti nel compiere il piano divino. Anche in questo caso l’esigenza dell’adempimento della volontà viene collegata alla divina figura paterna: tutte le dinamiche familiari precedenti vengono a decadere. I discepoli di Gesù sono coloro che compiono la volontà del Padre diventando fratelli. Essere fratelli di Gesù significa essere discepoli compiendo la volontà del Padre. Chi attua il volere divino è un discepolo e nel contempo un fratello di Gesù. Il compimento del piano divino rende fratelli di Gesù. Le tre prospettive prendono senso l’una dall’altra.Spesso si interpreta l’esperienza religiosa con categorie sacrali, perché si ritiene che la sacralità contraddistingua in maniera specifica il divino. La sacralità però tende ad allontanare la divinità rendendola totalmente altra,  mentre la fraternità è il luogo del rapporto diretto, immediato, franco e sincero con Dio. E compiere la volontà del Padre inserisce in una relazione profonda con Gesù che chiama a essere suoi fratelli.Avviene così un cambio di statuto: per Gesù i suoi non sono più soltanto discepoli, ma fratelli. Si verifica un innalzamento: dalla condizione di sottoposti  a una condizione di uguaglianza con lui. I discepoli tuttavia non vengono equiparati da Gesù solo a dei fratelli, ma sono addirittura chiamati “madre”. Gesù infatti va anche oltre al rapporto di fraternità perché dice: “egli è per me fratello, sorella e madre”. Essi assolvono a qualsiasi tipo di relazione. All’interno della comunità non c’è nessun rapporto che non sia soddisfatto. La comunità cristiana oggi ha perduto il senso della fraternità. Si fanno riti, pratiche e devozioni. Ma è questa la Chiesa di Gesù? All’interno si vivono legami superficiali, di tensione, di competitività. I rapporti inter-ecclesiali sono molto seri, chiedono estremo coinvolgimento personale. Il Vangelo di Matteo è marcato da lunghe allocuzioni di Gesù. Nel discorso ecclesiale il tema dominante è quello del peccato.Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda (Mt 18, 10-14).Questo è un ammonimento rivolto a chi, all’interno della comunità cristiana, ha un ruolo di guida, di autorità. La domanda a cui vogliono rispondere le parole di Gesù è: quale deve essere l’interesse pastorale maggiore di una comunità? Quello di cacciare o quello di accogliere coloro che non rientrano nello schema etico comportamentale? La Chiesa non può essere un club di perfetti. La comunità deve invece rivolgersi in maniera preferenziale a chi devia. Conta di più il peccato compiuto o la perdita del rapporto con Dio? C’è il rischio di considerare il peccato più forte dell’amore di Dio. Ciò che conta non sono quelli che sono già nella comunità, ma coloro che stanno fuori e, senza colpevolizzarli per il loro peccato, invitarli a riappropriarsi della consapevolezza di essere amati da Dio. Nell’ultimo testo del Vangelo di Matteo sul tema della volontà di Dio, essa viene posta in rapporto con la questione del male. Quando si è messi a confronto con esperienze di male, ci si domanda in che cosa consista la volontà di Dio. E’ contenuto in una preghiera: come il primo è una preghiera – il Padre Nostro – così l’ultimo è ancora una preghiera, quella del Getsemani, nel momento veramente drammatico dal punto di vista psichico. In nessun altro punto del Vangelo Gesù viene descritto colto da una tale tempesta emotiva. Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui mentre io vado là a pregare”. E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati (Mt 26, 36-40).Gesù si rivolge al Padre, appellativo che in questo momento assume una coloritura particolare. Ormai consapevole di dover affrontare una situazione drammatica, si rivolge a Dio non sentendolo come un  nemico, un assente. Nel momento cruciale di sofferenza e angoscia Gesù non mette in crisi il suo rapporto con Dio. Quando le cose vanno male ci si chiede chi è quel Dio che permette il dolore e la sofferenza. Non si può, tuttavia, far dipendere dagli esiti positivi o negativi dei fatti della vita il rapporto con Dio. Questo deve prescindere dalle situazioni reali che si è chiamati ad affrontare.Gesù giunge alla preghiera con tutta la sua carica di emotività. La richiesta “passi via da me questo calice!” allude a un Gesù che non è desideroso di sottoporsi a un processo, di soffrire, di morire. Gesù veglia e prega, i discepoli dormono. Il loro è un sonno antropologicamente simbolico. In un momento così cruciale,  il dormire significa che i discepoli sono assenti, estranei; intuiscono poco o niente del dramma di Gesù. L’interpretazione su cosa sia la volontà di Dio qui sembrerebbe ovvia, sarebbe cioè la morte di Gesù. Invece essa consiste nella fedeltà di Gesù in rapporto sia a Dio che agli uomini. Egli deve declinare questa doppia fedeltà nella concretezza della sua vicenda personale:  l’ha interpretata accettando di morire. Gesù non è morto perché Dio ha voluto la sua morte, ma perché gli uomini hanno progettato la sua uccisione. Non si può dire che la volontà di Dio è coincisa con il sacrificio del Figlio: la volontà di Dio consiste nell’essergli fedele. La volontà umana non può essere confusa o fraintesa con quella divina.Gesù ricorre alla preghiera per interpretare questa duplice fedeltà. C’è il rischio di pregare molto i Santi e la Madonna, ma di non interrogarsi mai nella preghiera su come vivere questa doppia fedeltà nella concretezza della vita. Nel Vangelo è chiaro il piano di Dio, che consiste nella duplice relazione d’amore con Dio e con gli altri. Nella preghiera ci si deve ricordare che Dio sta realizzando la sua volontà, ma con la collaborazione umana. Senza il contributo personale mancherebbe un tassello nel mosaico della creazione.Quando il discepolo si rivolge a Dio con la petizione Sia santificato il tuo nome, Venga il tuo regno, Sia fatta la tua volontà, non gli viene chiesto di starsene con le mani in mano, aspettando che Dio realizzi il suo regno, santifichi il suo nome e manifesti la sua volontà. Nella preghiera il discepolo si inserisce nella dinamica di Dio, che realizza sia la santificazione del nome, sia il regno che la volontà, attraverso la sua vita. Egli si rende disponibile affinché il nome, il regno e la volontà di Dio si manifestino attraverso la sua esistenza. La preghiera non può essere interpretata quindi solo come una richiesta a Dio di compiere quello che deve, anche perché sarebbe assurdo ricordargli ciò che deve fare, quasi non lo sapesse o se lo fosse dimenticato. Quello che conta è che nella preghiera il discepolo prenda coscienza che queste tre azioni divine, – santificazione del nome, compimento del regno e della volontà di Dio-, avvengono soltanto se egli si compromette interamente; in altre parole se nella vita ha come obiettivo questi stessi tre scopi.Esiste allora un criterio che riveli la volontà di Dio? Essa corrisponde sempre a un progetto di amore. Quando si ama si compie la volontà di Dio, quando non si ama non la si compie.Concludendo, la storia umana non è il risultato della volontà di Dio. Non è la volontà di Dio a determinare il panorama storico in cui si vive, con la sua serie  di sofferenze, malattie e disastri. Il credente, di fronte alle situazioni più svariate della vita, deve chiedersi come agire per attuare la volontà di Dio. Domandarsi, cioè, come reagire con un atto d’amore di fronte alle situazioni di odio, di conflitto, di ingiustizia, di sopraffazione, di violenza, di arroganza. La volontà di Dio risulta quindi estremamente chiara. Invece non sempre è altrettanto chiaro quale sia il modo concreto di amare, ma scoprirlo è proprio il fine della preghiera.