Per i cristiani non si spendono parole

“Non abbandonateci, non lasciateci soli”: lo ripete come un mantra, monsignor Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo, una delle città martiri della guerra civile in Siria, mentre dall’altro capo del telefono si sentono chiaramente gli scoppi dei mortai. Per un attimo mons. Jeanbart sembra dimenticare quanto gli accade intorno e attacca senza mezzi termini l’inazione europea: “Quando accadono fatti come decapitazioni, crocifissioni, esecuzioni sommarie, voi in Europa siete soliti dormire per non vederli”. La stessa commozione il presule la riserva per la sua città, la più antica del mondo, Aleppo, che non ha mai pensato di abbandonare. E parla di “grave emergenza umanitaria”. “In città manca tutto – racconta srotolando una lunga lista di bisogni – elettricità, cibo, acqua, benzina, medicine. Le industrie sono state chiuse e i loro operai, più di un milione e duecentomila, ora sono privi di reddito. La vita è sempre più dura, complice anche l’inflazione che ha fatto quadruplicare i prezzi dei generi di prima necessità”. Tutto questo sembra non esistere per i media del mondo. “La città sembra ormai abbandonata a se stessa, nessuno ne parla più, nessuna riga sulle sofferenze della popolazione. Prima della guerra qui abitavano oltre tre milioni di persone, oggi ne sono rimaste poco meno della metà. Gli altri oggi ingrossano le fila dei profughi e degli sfollati. Come Chiesa facciamo quel possiamo forse più delle Ong, delle agenzie umanitarie e anche del Governo stesso, aiutando quanta più gente possibile. Ma non basta”. Mentre dentro la città si vive “nella paura e nella miseria”, nelle zone periferiche si combatte. Da una parte, le forze governative e, dall’altra, quelle di opposizione. “Negli ultimi giorni – spiega mons. Jeanbart – l’esercito regolare sembra avere conquistato il controllo di località e villaggi intorno ad Aleppo così da formare una cinta difensiva per evitare che cada nelle mani dei ribelli o peggio dei miliziani integralisti dello Stato islamico”. Questi ultimi, in maggioranza stranieri, “rappresentano un nemico anche per gli oppositori di Assad, in larghissima parte siriani, che invece ogni giorno di più lasciano le armi per cercare vie negoziali con il regime. Rischiano meno con le forze regolari del presidente Assad che con i miliziani del Califfo”. “Lo Stato islamico – denuncia l’arcivescovo – fa soldi con la disperazione di tanti poveri che vengono pagati profumatamente, anche in anticipo di mesi, per combattere. Una grande fonte di reddito per le famiglie di provenienza che per questo li spingono nelle braccia di al-Baghdadi. Lo stipendio mensile di un combattente Is si aggira sui 500 dollari, circa 150mila lire siriane. Una cifra enorme rapportata al salario medio in Siria che adesso è di 15mila lire. Sono tanti soldi nelle mani di ragazzi di 16 o 17 anni ai quali vengono date anche droghe e poi mandati a morire”.  Sogniamo – e qui la voce s’incrina – un Paese nuovo, dove tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti e doveri, dove nessuno sia più prevaricato, dove il dialogo tra le fedi non sia fatto solo di convenevoli m a di scambio di convinzioni. In questo impegno la Chiesa avrà sempre la mano tesa verso l’altro, senza differenza alcuna”.