Monsignor Dino: umile tra gli umili

Ho collocato l’immagine del Vescovo Dino – quella che è diventata un po’ la “foto ufficiale” dopo la sua morte terrena – in un quadretto e l’ho posto su un tavolino, nel corridoio, piuttosto buio, che porta alle camere della nostra canonica.

La signora che accudisce la mia persona e cura la pulizia e la bellezza della casa, durante un intervento di pulizia, lo ha ricollocato, posizionandolo su armadio, alto circa un metro e sessanta, proprio di fronte la porta della mia camera. Se prima passavo davanti il quadretto, ora me lo trovo di fronte ogni volta che entro nel mio “rifugio”. Credo che la mano della signora sia stata guidata, perché solo ora, ogni volta che mi imbatto in quell’immagine, sono costretto a fare memoria di un grande uomo.La fotografia, scattata durante una celebrazione in una delle nostre chiese, definisce in modo perfetto la persona e la personalità del Vescovo Dino.

Prima il suo volto: raggiante, illuminato. Mi ricorda il Monte Tabor, dove Gesù si manifestò ai discepoli, dopo aver contattato il Padre, con un volto non terreno. Il Vescovo Dino vede il Padre e nella foto quasi voglia rivelarci la bellezza, la grandezza, la magnificenza del Creatore. In mano il pastorale, quello che più ha amato. Me lo ha fatto riparare più di una volta, perchè era il suo preferito. Un pastorale di legno, semplice nei suoi lineamenti, ma simbolicamente molto efficace. Il Vescovo Dino è stato un buon pastore prima ancora che papa Francesco invitasse i preti ad “avere Monsignor Dino: umile tra gli umili l’odore delle pecore”. Presiedeva volentieri le celebrazioni liturgiche, ma alla fine di esse non rifiutava mai+ di scendere sul campo e mescolarsi con il su Popolo. Sempre una buona parola, sempre un sorriso,  accompagnato anche da battute che per la gioia di tutti traspiravano la gioia dell’essere fratelli e sorelle. Ma il pastorale gli era anche da vincastro, specialmente nella malattia. Si  appoggiava a lui come per dire: è Lui il mio appoggio.

E’ vestito di vesti violacee nella fotografia. Il color viola, nella liturgia, è il colore del funerale, della morte terrena. Giustamente ribadisce che anche lui è morto a questo mondo. Però il colore viola è anche segno di penitenza, di umiliazione davanti a Dio, di richiesta di perdono. Quella casula non tarda mai a ricordarmi la sua umiltà e le sue umiliazioni ricevute. Umiltà, della quale non serve io ribadisca il concetto: lo conoscevamo tutti. Ma anche umiliazioni ricevute da quelli che furono i “suoi fedeli”: criticato perchè non all’altezza, contrapposto perchè incapace di scelte radicali, attaccato perchè ha affidato alcune responsabilità a persone ritenute da qualcuno non idonee, qualche volta anche denigrato perchè ha preferito gli ultimi, i lontani, i “meno vistosi”. Mi si è confidato più di qualche volta. La sua mano, sulla fotografia, poggia sul crocefisso, come a dire: in hoc signo vinces – questo è il metodo ed il segno della vittoria. Non solo lo mostra con la mano, lo h aanche sperimentato nella sua vita terrena, particolarmente quella finale. Ha saputo accettare con profondo abbandono al Padre la sua malattia perchè prima, da prete e vescovo era un tutt’uno con i malti. Sì, posso dire pubblicamente che il Vescovo Dino aveva un’amante: l’UNITALSI. Per questa associazione, per i suoi membri si è donato fino alla fine, tanto da morire nel suo letto sia come Vescovo Emerito sia come Assistente Ecclesiastico effettivo della Sezione Triveneta dell’UNITALSI. S’intravede poi, ma non molto visibile, il suo anello episcopale. Ci teneva all’anello. Non per suscitare negli incontri il baciamano e neanche per arrogarsi la maestà regale. Il suo anello era segno del suo fidanzamento, anzi, del suo incondizionato patto d’amore con la Chiesa. Lo ricordava sì che era un membro del Collegio episcopale, ma molto più che era un co-responsabile della fede, della speranza e della carità dei suoi sudditi e di tutti i fedeli nella Chiesa.

Infine, mentre osservo questa foto, la vedo rinchiusa nel riquadro, limitata in quei pochi centimetri quadrati. Ebbene sì, anche la sua vita terrena era limitata: delineata da un territorio, chiusa nel guscio della sua personalità e della sua umanità, tante volte affranta per i suoi errori. Ma questo era un limite del tempo. Ora, per lui, non esiste più un quadro limitatorio, ora è nell’eternità della Vita, nell’infinito del Padre, nel materno abbraccio della Madre. E così desidero anche immaginarlo ogni volta che mi imbatto in quella immagine, collocata all’altezza della mia visuale, mentre entro nel soggiorno della mia intimità.