La profonda spiritualità del beato Bonifacio

Si può ben dire che a 75 anni dal martirio di don Francesco Bonifacio (11 settembre 1946) il suo ricordo è ancora vivo. Credo, anzi, che nel tempo, soprattutto in questi ultimi anni, sia cresciuto l’interesse a conoscere la storia di questo giovane e santo sacerdote; e questo non solo nella nostra Diocesi ma anche in quelle vicine, soprattutto in quella di Parenzo e Pola.Perché c’è il desiderio di riscoprire la profondità della sua spiritualità, il suo radicamento nella Parola di Dio e, insieme, il suo voler essere sempre vicino alla sua gente.Perché don Francesco aveva impostato il suo rapporto con le persone partendo dalla loro vita quotidiana, che era fatt  ,a soprattuttodi duro lavoro nei campi, della semina e del raccolto, sempre affidandosi alla Provvidenza di Dio.Don Francesco andava nella frazioni più distanti dalla sua chiesa di Villa Gardossi-Crassiza (Punta, Baredine, Lozari)  per il catechismo ai bambini e la sorpresa era quella di trovarsi davanti anche gli adulti: quella era un’occasione preziosa perché gli dava modo di renderli partecipi degli insegnamenti religiosi ma anche di intessere con loro quel rapporto personale essenziale che ha fatto diventare la gente di quelle frazioni, sparse su un vasto territorio, una vera comunità di fede. E non fu poca cosa.Infatti, dopo la sparizione di don Francesco, la curazia di Villa Gardossi rimase per un lungo periodo senza un sacerdote stabile; solo in qualche rara occasione arrivava qualcuno a celebrare la santa Messa. Però la gente del paese continuò a ritrovarsi in chiesa, soprattutto la domenica pomeriggi per il canto del Vespro o per la recita del Rosario, dando così continuità alla vita cristiana, pur senza la presenza del sacerdote; mentre per assolvere al precetto – come si diceva allora – andavano, soprattutto i giovani, a Buie o a Grisignana, molto spesso spiati e seguiti da chi aveva il compito di strappare Dio dal cuore della gente. Insomma non si avverrò quanto, in una riunione del partito comunista locale, era stato deciso a proposito di don Francesco: è meglio uccidere il pastore, così si disperderà il gregge.Ma il gregge non si disperse; anzi, quel gregge continua ancora oggi, anche se è un’altra generazione: segno che il seme della Parola sparso da don Francesco era caduto su un terreno buono e aveva dato il suo frutto. Non si può, peraltro, ricordare don Francesco Bonifacio senza parlare della misericordia, della carità e del perdono sul quale tante volte egli si è soffermato nelle riflessioni e nelle meditazioni personali, riproponendo questi concetti ai suoi fedeli in varie occasioni liturgiche. Ma anche i gesti concreti della sua vita e della sua azione pastorale trovarono compimento pieno nel momento supremo del suo martirio.E qui ritornano alla mente alcuni gesti di vera carità compiuti da don Francesco in tempi durissimi e soprattutto rischiosi per la propria vita: salvò una bimba di pochi mesi dalle macerie di una casa che era stata bombardata, donò più volte cristiana sepoltura a persone uccise nella lotta tra le varie fazioni politiche, offrì riparo ad un giovane che non voleva arruolarsi nell’esercito dei partigiani titini, riuscì a salvare un villaggio dalla rappresaglia dei tedeschi: tutto questo, per don Francesco era semplicemente vivere nel concreto il Vangelo della carità.E per la gente questi gesti hanno lasciato un segno profondo nella loro vita e nel ricordo del loro santo sacerdote. Ma ciò che ha dato maggiore luce a tutta la sua vita è stato quel supremo atto di carità e di misericordia offerto nel momento del martirio: il perdono ai suoi uccisori. Nella sua ultima omelia che si trova nei suoi quaderni di predicazione, spiegando il Vangelo di quella domenica (1° settembre 1946), parlando della guarigione fatta da Gesù al sordo muto, don Francesco ricordava come tante volte noi siamo spiritualmente sordi e muti agli inviti del Signore.In quella omelia parlava dei gesti di carità, di amore verso il prossimo: Chi ha due vesti ne doni una a chi non ne ha; similmente faccia con il cibo: ecco l’elemosina materiale. Poi fare il bene anche a quelli che ci odiano, che ci perseguitano, che ci calunniano: ecco l’elemosina spirituale, il perdono. E ricorda come Gesù: Ama persino il suo traditore che lo chiama addirittura amico. Ama i propri crocifissori: per essi domanda perdona al Padre celeste.Appena qualche giorno dopo, quell’omelia diventava una drammatica esperienza personale per don Francesco, vissuta nel martirio: quelle parole di perdono pronunciate per ben tre volte – che Dio ci perdoni tutti – sono il segno supremo della sua donazione al Signore e, insieme, il perdono ai suoi uccisori.Per questo viene da pensare che quel perdono consapevolmente donato da don Francesco nell’ultimo atto della sua vita, non può non aver portato dei frutti, come il seme che, sottoterra, marcisce ma poi porta molto frutto. Sono diversi infatti i segni di ravvedimento che alcuni di coloro che ebbero responsabilità nella sua uccisione, hanno segnato gli ultimi momenti della loro vita. Non sta a noi giudicare nulla.  A noi è dato solo di accogliere questi segni, con il cuore aperto alla misericordia di Dio. Un’ultima ma non secondaria considerazione: spesso si è sentito impropriamente dire che don Francesco Bonifacio è stato beatificato a causa della sua morte santa, del suo martirio. Sappiamo che non è così.Don Francesco è stato riconosciuto santo per l’ordinarietà della sua vita, non solo per la straordinarietà della sua morte. Nella sua breve ma intensa vita, infatti, ha saputo incarnare con coerenza la sua fede e le virtù cristiane. A noi resta da scoprire, come spesso ci indicava don Giuseppe Rocco, l’ultima persona che incontrò don Francesco, la perenne presenza di Dio nella nostra terra e nella storia, attraverso la via che lo Spirito ha voluto indicare al Beato martire come testimonianza per tutti noi.