La comunicazione silenziosa del rito

Il beato Odorico, nato a Villanova di Pordenone nel XIII secolo, fu uno dei rari viaggiatori medievali che si spinsero in Estremo Oriente e, cosa per niente scontata, riuscì anche a fare ritorno. Inviato in missione in Cina dall’Ordine francescano, meritandosi così l’appellativo di apostolo dei Cinesi, egli visitò moltissime località e regioni esotiche: da Venezia raggiunse Costantinopoli, poi Trebisonda, poi si spostò nell’attuale Iraq fino al Golfo Persico; si imbarcò per l’India, raggiunse lo Sri Lanka, le isole di Sumatra e Giava e, infine, arrivò a Cambalech, l’attuale Pechino.Di questo incredibile viaggio ci rimane – un po’ come per il Milione di Marco Polo – un resoconto scritto che lo stesso beato Odorico, appena tornato, dettò al frate Guglielmo di Solagna. Nel Medioevo questo racconto chiamato “Itinerarium” o “Viaggio”, divenne un vero best-seller. In esso Odorico ci racconta di persone e luoghi davvero particolari e, qualche volta, anche di popolazioni dai costumi davvero bizzarri che lui, con zelo missionario, cercò di convertire o, se non altro, di aiutare. È il caso per esempio di quando, in un’isola vicina allo Sri Lanka, egli cercò di far desistere una popolazione dal mangiare le carni dei loro parenti defunti. Così facendo, costoro impedivano ai vermi di nutrirsi del corpo dei loro cari: “Infatti se fossero i vermi a mangiare la sua carne” spiegarono ad Odorico, “l’anima del defunto patirebbe grandissimi pene; perciò noi mangiamo la sua carne cosicché la sua anima non soffra alcuna pena.” (Itinerarium, XVIII)Il beato provò in tutti i modi a far ragionare queste persone ma essi non rinunciarono al loro rito funebre perché la loro cultura era troppo diversa dalla sua.Nonostante le barriere culturali e religiose, nella sua missione il beato Odorico riportò anche dei successi; uno di questi fu sicuramente l’incontro con il Gran Khan della Cina che, a differenza dell’incontro con i cannibali, avvenne senza che si scambiasse una sola parola. Così ce lo racconta Odorico: “Quando una volta il Gran Khan venne a Cambalech ed era confermato con certezza il suo arrivo, uno dei nostri vescovi e alcuni frati, e io stesso insieme con loro, gli andammo incontro per ben due giornate di cammino. Avvicinandoci a lui, posi la croce sopra un legno, in modo che si potesse vedere pubblicamente. Io poi avevo in mano un turibolo, che mi ero portato con me, e incominciammo a cantare ad alta voce “Veni, creator Spiritus”. Mentre cantavamo così, egli sentì le nostre voci e ci fece chiamare, comandando di presentarci davanti a lui. Il Gran Khan stava dunque disteso nella sua carrozza ma subito, vista la croce, si raddrizzò, si mise a sedere e depose subito il suo galero – un copricapo di valore quasi inestimabile – e baciò devotamente e con umiltà la croce. Subito posi dell’incenso nel turibolo che avevo in mano e il nostro vescovo, preso il turibolo dalle mie mani, incensò il sovrano. Davanti a questo sovrano c’è poi questa abitudine: nessuno osa comparire al suo cospetto a mani vuote. Perciò avevamo portato con noi alcune mele e le abbiamo offerte al sovrano con riverenza ponendole sopra un tagliere. Egli ne prese due di queste mele e ne mangiò un po’ da una di esse; poi il nostro vescovo gli diede la sua benedizione. Fatto questo, (il Gran Khan) fece cenno che ci allontanassimo, in modo che i cavalli e la folla che veniva dietro di lui non fossero causa di qualche disagio per noi.” (Itinerarium, XXXVIII)I due mondi, le due culture, le due religioni dunque si sono incontrati: ma come hanno comunicato? Non attraverso parole, pensieri o dibattiti teologici ma con quella genuinità propria del gesto rituale che interpella la nostra natura umana basilare. Il rito è un linguaggio, è una comunicazione, ma in questo caso non ci sono parole. Per capire bene questo episodio è necessario prima sbarazzarci di un luogo piuttosto comune secondo cui l’uomo è prima di tutto pensiero, razionalità pura… poi tutto il resto, azioni comprese.”Il linguaggio dei gesti” scrive Bonaccorso, “così importante per la simbologia rituale, non è un goffo sostituto della parola, ma una parola più originaria del suono, una parola che dice nel silenzio perché non ha lo scopo di produrre informazioni.” Nella fruttuosa comunicazione avvenuta tra Odorico e il Gran Khan è stata proprio l’immediatezza del rito a sorpassare le barriere culturali e religiose tra i due interlocutori. Potremmo dire che in questo episodio storico l’enorme distanza tra Occidente ed Oriente non si è colmata attraverso proclami o scomuniche ma, in primo luogo, attraverso una silenziosa corrispondenza tra due persone che, proprio grazie al rito, possono stare l’una di fronte all’altra senza il bisogno di parlare.Il 14 gennaio ricorre la memoria del beato Odorico da Pordenone e forse questo episodio così singolare può dare a noi e alla Chiesa tutta un esempio concreto su come vivere i rapporti ecumenici e le relazioni interreligiose; non quindi abusando delle parole ma prima di tutto vivendo e condividendo insieme, anche silenziosamente, gli spazi umani e universali del rito.