Invitati a “scambiarci la vita” – Il Convegno nazionale della Pastorale giovanile

“Scambiarci la vita”, queste sono state le prime parole pronunciate da Don Michele Falabretti, responsabile nazionale del servizio di pastorale giovanile. L’invito è perciò quello all’incontro e all’ascolto, pronti a condividere ed offrire le nostre esperienze.Non siamo stati certo chiamati a rifondare la pastorale giovanile, ma lo sforzo deve essere quello di lavorare per riuscire ad essere una pastorale giovanile organica, intelligente e coraggiosa. Nessuno ha le ricette pronte per riuscire nello scopo, ma grazie al confronto e al dialogo, i problemi che ognuno ha nelle sue realtà possono diventare sfide e possibilità; e l’unico modo per riuscire ad ottenere questo risultato è quello di mettere in gioco la propria curiosità.La consapevolezza iniziale deve essere quella di vivere in costante contatto con questioni mai risolte, ma il doversi confrontare con situazioni complicate e non farcela non deve essere in alcun modo un alibi alla rassegnazione. Sono proprio i nostri limiti che ci chiamano ad andare oltre e a non mollare; siamo abilitati al nostro ruolo proprio perché “siamo stati oggetto di cura” e non possiamo prescindere da questo.Alla base del nostro agire deve stare il progettare e tale arte è una questione educativa che ha a che fare con il generare ad una vita di fede, che è la vera questione che sta al centro della pastorale giovanile. Abbiamo bisogno di rigenerarci con l’umano e per trovare i luoghi delle esperienze di fede dobbiamo a tutti i costi partire da un’accurata e sapiente progettazione; altrimenti corriamo il rischio di procedere unicamente per tentativi.In una progettazione pastorale sono importanti alcuni punti fondamentali:- Il progetto deve essere “le stelle”, devo per forza voler puntare in alto- Educhiamo perché abbiamo un sogno- Generare ha a che fare con la cura e il prendersi cura- Stare accanto a chi cresce significa saper e dover attendere- L’educazione è un cantiere sempre aperto ed ha i suoi ritmi- L’attenzione più grande deve essere rivolta al fatto che noi siamo sempre gli stessi, ma i ragazzi cambiano; perciò ricominciare da capo non è un fallimento ma una necessità- Progettare ha a che fare con il mandato, che a volte non è del tutto chiaro e va quasi sempre contrattato.Spesso c’è la tendenza ad intendere la pastorale giovanile come un’organizzatrice di eventi e non come un sostegno alle azioni di pastorale giovanile che ci sono sul territorio della Diocesi e che sono gestite da parrocchie ed associazioni.Altro errore che di solito si commette è quello di ritenere l’Incaricato come colui che è designato a sostenere e a fare tutta la pastorale giovanile. La figura del Vescovo diventa perciò importante per definire le linee e per rispondere alla domanda del “Come mi muovo?” che spesso gli viene posta.Se riusciamo a portare all’attenzione della Diocesi idee che vengono sostenute siamo poi in grado di compiere quel qualcosa di straordinario che la pastorale giovanile da sempre tenta di fare: rispondere a bisogni illimitati con risorse limitate.Ecco perché una vera e buona progettazione deve tenere conto di ciò che c’è e non può fare i conti con cosa sarebbe bello ci fosse. Nessuno deve sentire il bisogno di affermare se stesso perché il senso del nostro servizio non è certo quello di fare a gara con chi abbiamo a fianco.Per tentare di ottenere dei risultati perciò dobbiamo essere in grado di darci degli obiettivi e delle strategie. I primi corrispondono al sapere dove dobbiamo andare, e per farlo dobbiamo discuterne con la consulta, che serve a tradurre in pratica le linee pastorali. Le seconde invece sono decise dall’equipe e riguardano i mezzi che dobbiamo utilizzare per raggiungere i suddetti obiettivi.Non essere organizzati ed improvvisare significa non avere tempo per le relazioni e ciò squalifica immediatamente il gioco educativo, che funziona e si regge proprio sulla relazione e per la quale è richiesto del tempo. Ecco perché un altro aspetto sul quale si è molto insistito è quello dell’avere un metodo. Chi ha metodo può contare sull’accoglienza, sulla conoscenza, selle relazioni e sull’esperienza. Solo quando ci sono rapporti e relazioni umane possiamo parlare di Gesù Cristo e risultiamo credibili nel farlo. Se siamo in grado di trasformare l’arte di progettare in una mentalità progettuale allora sì che possiamo iniziare a confrontarci con il “Si può fare!” con il cuore, con l’intelligenza, con il coraggio e allo stesso tempo con la consapevolezza che abbiamo qualcuno sempre al nostro fianco e che si manifesta nei nostri fratelli.