Giovani in Messico

Sono una studente d’infermieristica e ho sempre pensato all’eventualità di andare in missione in funzione a questo mio percorso di studi; se pensavo alla missione di certo non era nell’ottica di un percorso di fede. Così, quando mi è stata fatta la proposta, l’ho scartata. Ma col tempo ho cercato di convincermi della bontà di quest’occasione che avevo rifiutato con tanta facilità e ben presto la scelta di parteciparvi è nata dall’idea che, nonostante non fosse ciò che avevo da sempre immaginato di vivere in terre di povertà, sarebbe potuto comunque essere un modo per conoscerle.Nei mesi che hanno preceduto la partenza abbiamo partecipato a degli incontri di formazione e di preparazione oltre ad un ritiro di due giorni presso la Comunità Missionaria di Villaregia a Pordenone, dove ci hanno aggiornato più specificamente sul paese del Messico e la missione di Texcoco che lì avremmo visitato. Ho conosciuto i miei compagni, chi nuove conoscenze e altri già incontrati, e abbiamo cominciato a camminare insieme: eravamo in dieci, 8 da Gorizia e provincia, e da Trieste altri due giovani più il loro “don” che ci ha accompagnati. Così all’alba del 25 luglio è finalmente cominciata l’avventura promossa dagli uffici diocesani goriziani di pastorale giovanile e missionaria e dalla parrocchia di Santa Teresa del Bambino Gesù in Trieste. Come in altri viaggi, inevitabilmente ci si creano delle idee, delle aspettative su come sarà il posto, le persone, su quello che si farà; nonostante abbia cercato di non crearmene è stato un po’ impossibile, anche perché comunque eravamo stati resi partecipi dell’esperienza vissuta da altre persone proprio in quei luoghi. Dopo qualche giorno però mi sono resa conto che tutto era diverso da quello che avevo immaginato e che avrei potuto immaginare.Abbiamo vissuto due settimane di “full immersion” nella vita missionaria e soprattutto lì a Texcoco, e il tempo è veramente volato!I primi giorni sono stati dedicati soprattutto alla visita e alla conoscenza del territorio della parrocchia: era padre Aldo che con la “camioneta” ci portava tutti e undici per le strade e gli sterrati delle cinque estese zone in cui è suddiviso il territorio parrocchiale. Abbiamo avuto poi la possibilità di prendere parte ad alcune delle stesse attività dei missionari; ogni mattina si veniva smistati in modo che tutti potessero fare esperienze diverse. Io ho partecipato alla preparazione e alla distribuzione delle borse della spesa alle famiglie in difficoltà, al volantinaggio in una colonia della parrocchia per informare della possibilità di iscrivere i bambini alla catechesi, della presenza di alcune parrucchiere e di quando si sarebbe tenuto il bazar con l’offerta a bassissimo costo di vestiti (un minimo contributo era richiesto per evitare la mentalità assistenzialista); inoltre ho partecipato alla distribuzione settimanale nel “comedor” (la mensa) di San Venceslao del pasto completo a base di quella carne, che ben pochi possono permettersi, così come della consegna delle borse della spesa preparate dai missionari e da alcuni del nostro gruppo, e ho contribuito alla riparazione del tetto di una casa (un piccolo edificio di 3 metri per 4, costruito con mattoni di fango, come pavimento la viva terra e un tetto pericolante in eternit con le travi sottostanti marcite) e alla risistemazione all’interno di quello che possedeva la coppia di sposi che in essa vi viveva (per lo più vestiti e stoviglie), che a causa dei lavori era tutto sparso sul prato.Diversi di noi inoltre hanno avuto la possibilità di partecipare a delle feste tipiche della tradizione messicana (dove non potevano mancare i “mariachi”) o di condividere un pranzo con le famiglie che dimostravano di essere onorate nell’invitarci alla loro tavola. Più di qualcuno ha preso parte alle Messe del novenario, ovvero Messe che si tengono per le strade di una colonia in prossimità della festa del Patrono a cui è dedicata la cappella: la statua del Santo passa di giorno in giorno da una famiglia all’altra e la sera la famiglia che l’ha ospitata offre ai presenti la celebrazione eucaristica e, a seguire, la cena o un piccolo rinfresco, a seconda delle possibilità.Un’esperienza particolarmente forte è stata quando tutti insieme siamo andati a visitare Escalerillas, una colonia ancora più in periferia dove hanno operato per dieci mesi due missionarie della comunità, trascorrendo semplicemente la vita assieme alla gente del luogo. Questa colonia è caratterizzata dalla presenza del “tiradero”, ovvero l’immondezzaio a cielo aperto, dove lavorano un sacco di persone: padri di famiglia, madri, bambini: famiglie intere. Passando attraverso le montagne di rifiuti, offrivavamo ai lavoratori un “vaso de refresco”, cioè un bicchiere di bibita fresca, e spesso ci fermavamo a chiacchierare con loro.Tra queste baracche, insieme a Giulia, mia sorella Lucia ha incontrato tre bambine con cui ha giocato e parlato. E quel giorno sul suo profilo FaceBook Lucia ha scritto: “Quando le abbiamo salutate perché dovevamo andare via loro hanno deciso di regalarci un pezzetto del loro tesoro, ci hanno regalato dei braccialetti. Noi non avevamo niente da dare, la nostra bibita l’avevamo già finita. Quelle bambine che vivono in mezzo alla spazzatura hanno fatto un regalo a noi, due ragazze che hanno giocato un po’ con loro e che probabilmente non vedranno più. Questo mi ha scioccata”. Lucia da quel giorno non si è più tolta quei braccialetti…Pensare a quest’esperienza ancora adesso mi fa venire i brividi: mi tornano in mente i volti, le parole, gli occhi di quelle persone, i suoni, gli odori, le emozioni che mi ha suscitato il vedere un’intera collina coperta di spazzatura e di come questo fosse la realtà quotidiana di molta gente, di come fosse il loro modo per guadagnarsi il pasto e, per alcuni, per poter mantenere una famiglia e mandare i figli a scuola. Questo mentre don Paolo e padre Aldo passavano per le famiglie che avevano chiesto alle missionarie di ricevere la benedizione e la chiedevano… anche per le immondizie, dal momento che per loro erano il segno della Provvidenza di Dio per poter vivere.In questa colonia siamo stati anche invitati a partecipare alla conclusione dei corsi del doposcuola: i bambini ci hanno fatto vedere i loro disegni, abbiamo fatto con loro dei giochi di matematica e abbiamo assistito al saggio di chitarra. Alla fine sono stati consegnati loro dei diplomi e tutti insieme abbiamo vissuto la festa conclusiva.In due settimane abbiamo visto le strade delle colonie, le case, incontrato persone, parlato con loro e, per quel poco che potevamo essere in grado, stretto dei legami e toccato la realtà in cui vivono; abbiamo visto la gioia nei loro occhi mescolata a tanta sofferenza, la loro fede così semplice ma tanto grande e profonda, la gentilezza e l’accoglienza verso di noi, verso gli altri e soprattutto verso coloro che possiedono ancora di meno.Personalmente, oltre all’esperienza nel “tiradero”, mi ha colpito il momento della distribuzione delle borse della spesa. Eravamo insieme a una volontaria messicana, amica della comunità, che sapeva da che famiglie dovevamo andare e conosceva la colonia. Lei ogni volta ci raccontava la storia delle persone da cui ci presentavamo facendoci conoscere realtà che spesso non si riescono neanche a immaginare. E per ogni persona aveva una parola di conforto da dare senza essere inopportuna, cercava di rassicurarli dicendo che noi ci ricordavamo di loro, che il Signore si ricordava di loro, che Dio era loro vicino e li affidava alla sua protezione, e dicendo questo i suoi occhi brillavano di commozione, di compassione e di fede.E sono rimasta colpita anche dalla Messa di lode del mercoledì sera, offerta dalla Comunità per i malati, i poveri e in ricordo di chi festeggiava quella settimana qualche ricorrenza; alla Messa seguiva l’adorazione eucaristica e l’ostensione di Gesù in mezzo al numerosissimo popolo che affollava la cappella: più di 600 persone ogni settimana. Ciò che mi ha lasciato è la gioia con cui la gente partecipava, la devozione con cui pregavano durante l’adorazione, la semplicità con cui chiedevano perdono o con cui ringraziavano quando il padre li invitava ad esprimersi, a rivolgersi al Signore. Come vivono questo momento è completamente diverso da come siamo abituati noi: loro esprimono tutta la loro fede in parole, coinvolgendo il corpo nella preghiera, alzando le braccia verso il cielo, inginocchiandosi, piangendo, dicono grazie e lo ripetono più e più volte ad alta voce, vanno a toccare l’ostensorio, lo baciano, baciano le mani del padre che lo regge; tutto questo non crea disturbo come potrebbe essere da noi, questo è il loro modo di esprimere tutta la loro fede, loro non hanno paura di inginocchiarsi, di chiedere perdono o di ringraziare, non hanno timore di mostrarsi per quello che sono, si lasciano andare nelle mani del Signore. Questa è una delle cose che ho imparato e che porto a casa con tanto affetto: non avere paura di mostrare di essere credente e non avere paura di affidarmi completamente al Signore.Ma dal Messico non mi porto via solo questo, oltre ai bei ricordi, alle amicizie strette, il popolo messicano mi ha fatto vedere come spesso noi occidentali viviamo la vita in modo superficiale, dando importanza più all’avere che all’essere e a chi ci sta di fronte. Quelle persone che vivono in case di poche stanze, dove spesso non c’è sempre l’acqua e l’elettricità, sono disposte a condividere o donare quel poco che hanno, che magari potrebbe servire per comprarsi da mangiare, a chi ha ancora meno, sono sempre pronte ad accogliere con un gran sorriso gli amici e anche gli amici degli amici per condividere un pasto o per far un po’ di festa. Noi invece siamo talmente attaccati a ciò che possediamo che spesso non riusciamo a staccarci completamente per aiutare l’altro o per accoglierlo.Aver vissuto questa esperienza mia ha fatto tornare a casa con una nuova prospettiva delle cose, delle persone, con nuovi valori e nuovi obiettivi, con una fede rinnovata e con la consapevolezza che la missione non è solo fare, ma anche esserci. Ho incontrato un popolo, una realtà che mi ha accolto e permesso di conoscere dei lati della propria quotidianità, che mi ha insegnato a guardare diversamente ciò che mi circonda. A mia sorella Lucia una persona aveva detto “Questa esperienza ti cambierà la vita”, ma una volta tornati lei mi ha confidato: “Non è vero: un’esperienza come questa non ti cambia la vita, ti cambia la prospettiva delle cose, la prospettiva tra giusto e sbagliato, la prospettiva della propria fede”. Insomma, ho vissuto un’esperienza intensa, diversa, che, per quanto breve possa esser stata, non può lasciare indifferenti.