Feriti dal dolore, toccati dalla grazia

Senso eminente della relazione è il tatto. Nel toccare sentiamo noi stessi e gli altri, nel toccare esprimiamo e provochiamo sentimenti, sensazioni, nel toccare diciamo la prossimità, il prenderci cura…..nel toccare diventiamo addirittura canali della Grazia. Dopo aver affrontato nel 2018 il senso della vista, quest’anno è stata la volta del tatto al XXI convegno nazionale  della pastorale della salute svoltosi a Caserta nei giorni scorsi e organizzato puntualmente dalla Cei sotto la giuda del direttore don Massimo Angelelli. Obiettivo principale del convegno – come il precedente – è mettere a tema la questione dei sensi come strumenti di conoscenza, diagnosi, cura e accompagnamento. Tra gli oltre trecento partecipanti, non solo i direttori degli uffici diocesani di pastorale della salute e molti cappellani ospedalieri, ma tanti laici volontari, medici, infermieri, membri di associazioni, enti e strutture che insistono nel mondo della salute. Oltre ai contenuti, è importante sottolineare la bellezza del convenire nello stesso luogo per conoscersi, scambiarsi idee e costruire nuove alleanze… tutto fondamentale per arricchire la professione, la vocazione e la missione  di chi sta nei luoghi della sofferenza, della malattia, della fragilità.

Collaborare non solo accanto in comunioneSi tratta quindi di imparare a collaborare non solo accanto, non solo insieme ma in comunione costruendo sempre di più una comunità sanante. In questa direzione, come ha indicato nel discorso di apertura il segretario generale della  Cei il vescovo Stefano Russo,  iventiamo generatori di bene, un bene che si tocca. E come si sostiene questa capacità di generare il bene? Facendo spazio alla Grazia di Dio, lasciandoci fare dalla Parola di Cristo, rimanendo in contatto con la via percorsa da Cristo… che è soprattutto una via di compassione. A questo proposito nella sua relazione suor Cristina Dobner, carmelitana di origini triestine, superiora presso il convento di Concenedo di Barzio (Lecco), esaminando le caratteristiche di un bestiarum acquatico (dal granchio, alla medusa, ai pesci predatori… fino al delfino),  ha aiutato l’assemblea a passare dal concetto di ” sentire a pelle” al senso della compassione. E la compassione si esprime bene attraverso la figura del delfino, simbolo di rinascita, di resurrezione, di vita fertile, di paternità e maternità. Il delfino identifica Gesù Cristo che percorre il grande mare della vita in totale compassione, immerso nell’umanità ferita.Oggi rischiamo di vedere al telegiornale notizie tragiche, di dire: “oh poveretti!” e passare all’altra notizia senza un minimo di compassione, non ci sentiamo toccati, coinvolti. Anche il vescovo di Vittorio Veneto, Corrado Pizziolo, attualmente anche presidente ad interim della Commissione episcopale per la carità e la salute, con il suo intervento ha evidenziato il significato antropologico del toccare : “il senso che funziona fin da subito è il tatto… toccare ed essere toccati resta fino alla fine della vita”. Illuminante il commento della biblista Rosanna Virgili sul vangelo dell’emorroissa. Sappiamo che il linguaggio dell’amore usa tutti i sensi e il tatto è l’acme. Questa donna considerata impura, isolata da tutti, infrange ogni regola e tocca Gesù, il suo mantello, e così rinasce. Quel sangue segno di morte viene fermato e redento dall’amore. Ecco perché Gesù dice: “chi mi ha toccato?”. Anche il biblista casertano don Picazio ha fatto notare, attraverso l’analisi di Marco 6,53-56, il bisogno della gente di incontrare e toccare Gesù per trovare una vita guarita. Tante sono le ferite, da sempre… di tutti i tipi. Don Tullio Proserpio, della diocesi di Milano, cappellano dell’istituto tumori di Milano, nella sua relazione ha sottolineato l’esistenza di tante violenze spirituali, di ferite dell’anima. Ecco che, sull’esempio di Gesù, farmaco di quanti con lui entravano in contatto, anche l’operatore pastorale deve svolgere questo servizio. “Sappiamo che non sempre accade questo – ha affermato don Tullio -. Molte espressioni che utilizziamo possono ferire i nostri interlocutori e non sempre si rivelano di autentico aiuto per le persone bisognose che vivono la stagione della malattia, la fatica, lo smarrimento”. Un accompagnamento che non aiuta a sperimentare il volto buono, paterno e amorevole di Dio, così come lo ha rivelato Gesù, procura ferite, oltre alla persona stessa, anche alla Chiesa. Da qui la necessità di adeguare la propria formazione a quanto oggi viene richiesto, oltre che dalla Parola del Vangelo, anche dalla stessa clinica. Anche Emanuela Vinai, coordinatrice del Servizio nazionale per la tutele dei minori della Cei, ha guidato la riflessione sulle ferite che nascono dalla violenza di genere, e buona parte riguardano i minori. È veramente necessario lavorare di più e meglio su prevenzione, protezione ed educazione. Successivamente è intervenuto don Claudio Burgio, anche lui come don Tullio della diocesi di Milano, impegnato come cappellano dell’istituto penale minorile Beccaria, il quale facendo riferimento anche ai recenti fatti di Manduria ha affermato: “Tra chi parla di mostri e chi chiede che si torni ad usare il pugno di ferro contro questi bulli, un fatto è certo: di fronte al male spesso sono le nostre emozioni più istintive a dettare legge e a formare il pensiero comune”. Ci sono invece da considerare ferite profonde nel vissuto di questi ragazzi, vuoti interiori, e quindi è sempre più doveroso tentare il loro  recupero attraverso un itinerario educativo volto alla speranza, al cambiamento positivo. È necessario perché questi stessi figli toccati dal male non credono più in una loro rinascita. “E’ importante per loro essere presi per mano… una comunicazione efficace passa dal contatto con le mani-  ha affermato don Burgio -, con quelle mani che hanno ucciso, violentato, ferito….per dire che possono essere ancora luogo di incontro, di vita nonostante tutto”.

Non si può guarire senza entrare nelle feriteUn altro tipo di ferita è data dall’errore medico.Il dottor Andrea Piccioli, direttore dell’Ufficio Qualità, Rischio e Programmazione ospedaliera del Ministero della Salute, ha portato l’assemblea a riflettere sul fatto che il rischio clinico e la sicurezza del paziente fanno parte delle attività attinenti ad un’area più ampia, definita Governo Clinico. La qualità dell’assistenza non nasce spontaneamente e non dipende soltanto dai singoli operatori, ma è il risultato di specifiche scelte di politica sanitaria. La pratica assistenziale può essere governata, cioè programmata, attuata, monitorata, riproposta o rimodulata a livello operativo secondo le logiche e gli strumenti della “clinical governance”. Al fine di garantire la sicurezza delle cure è di fondamentale importanza imparare dall’errore. Interessante poi Sandra Strazzer, neurologa a Lecco, direttrice dell’unità operativa celebrolesi, la quale ha evidenziato la necessità di un’ “alleanza terapeutica”: la relazione operatore sanitario -paziente è considerata parte integrante e fondamento della riuscita del percorso di cura.Ad esempio nel mondo della riabilitazione, è importante non solo un’alleanza terapeutica col malato ma anche con i familiari, con tatto è importante dire loro la verità sulla situazione. E questo proprio per non rompere l’alleanza terapeutica, anzi per rafforzarla. Nell’ultima parte del convegno, i partecipanti sono stati aiutati a comprendere che la gratuità sta alla base della relazione di cura. Luigina Mortari, docente di Epistemologia della ricerca qualitativa presso l’università di Verona, ha sottolineato che tutti hanno necessità vitale di ricevere cura e aver cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura di esistere. Impegnarsi in pratiche di cura significa dedicare ad altri tempo ed energie: fisiche, ma anche emotive e cognitive. Il prestare attenzione sensibile e intensiva all’altro consiste nel donare tempo all’altro(spesso dimenticando l’orologio). E donare il tempo è donare l’essenza della vita. Aver cura è agire in modo donativo, è un sentirsi chiamati ad aver cura, alla passione per il “ben-esserci”, ossia una tensione a promuovere una buona qualità della vita, il ben-essere nel senso di esistere bene…..e farlo senza sentirsi vincolati  bensì perché si sa dove sta l’essenziale. E tutto questo dentro una società dove la sofferenza, il dolore, la morte sono vissuti come vergogna privata. Quando si vive questa condizione ci si attende un gesto? Sandro Venturoli, formatore in ambito sociale e socio-sanitario, ha sottolineato che la cosa più difficile è accettare quanto la vita ci sta facendo attraversare. “Ma questa – ha affermato – è la condizione per trovarne senso,significato e prospettiva. Qual è quindi il gesto atteso da credenti e non credenti? Essere capiti, quindi ascoltati e accolti”. Relazioni e interventi intensi che hanno richiamato a vivere con maggiore responsabilità e passione il servizio pastorale. Tutto questo – durante la quattro giorni – è stato rafforzato da un pomeriggio intenso con la visita a Napoli alla Chiesa del Gesù nuovo che accoglie le spoglie mortali del santo medico Giuseppe Moscati il quale si dedicò completamente all’assistenza dei sofferenti, spesso curarandoli gratuitamente e anche aiuitandoli economicamente. Anche il Cardinal Sepe, arcivescovo di Napoli, durante l’omelia nella Cattedrale, partendo dal vangelo, ha invitato tutti con decisione ad agire con fede nel campo misterioso della sofferenza e ha incoraggiato a “non mollare” perché la vita sia sempre amata.Dal convegno si è potuto appurare ancora una volta che le ferite nell’uomo sono tante e di tanti tipi, ma è altrettanto vero che la Grazia di Dio tocca e raggiunge attraverso tante mani capaci e competenti, attraverso i gesti impastati della carità di Dio. È una Grazia attesa sempre… e come ha affermato nella sua relazione Luciano Manicardi, priore della comunità di Bose, “non c’è sporcizia più grande di quella di colui che non vuole sporcarsi le mani” perché questa Grazia raggiunga l’uomo.