“Don Eugenio”, vescovo secondo il Concilio

Le origini, mai dimenticate ma senza nostalgie ideologiche a Pola, una vita a Trieste, il servizio pastorale a Vittorio Veneto e, infine a Trieste, in continuità. Dentro stavano tante amicizie intense e condivise, il ministero diversificato, l’ecumenismo, la direzione del seminario e del settimanale diocesano, il ministero pastorale  che si è concluso con una singolare testimonianza nell’abbandono e nella malattia. Così è stata la vita e la testimonianza di monsignor Eugenio Ravignani, credente, prete e vescovo della Chiesa. In maniera singolare di quella di Trieste e della Chiesa del Concilio Vaticano II. La sua esistenza tra noi si è chiusa venerdì notte nella sua casa di Opicina dove ha soggiornato negli ultimi undici anni alla vigilia dei sessantacinque anni di ordinazione sacerdotale.I natali a Pola sono stati un connotato per don Eugenio che nasce nel 1932; nel 1946 l’arrivo a Trieste dove assume le molteplici caratteristiche di una città che un tutto formato da tante appartenenze ed insieme è un uno caratterizzato da città di mare, porto e industria, origini cristiane e laicità dentro ad una tradizione mitteleuropea che nessuna appartenenza unilaterale può mettere in scacco. Dopo gli studi teologici – in anni complessi – l’ordinazione nel 1955 per le mani del conterraneo Antonio Santin, succeduto al goriziano monsignor Luigi Fogar: vescovo con gli speroni, difensore della città, protagonista della storia molteplice di Trieste e della sua terra che ha dato i natali a tanti protagonisti. Trieste significa alta cultura italiana e internazionale, con la presenza qualificata di quella slovena; significa orrori come le leggi razziali, il Coroneo e la risiera di S.Sabba; tragedie come la divisione sul confine, le foibe e l’esodo istriano accolto soprattutto dalla città; significa le divisioni del mondo culturale, politico sindacale e dei partiti. Trieste è anche – come conferma il riconoscimento della Presidenza della Repubblica – delle origini singolari del movimento cattolico e della resistenza in un crogiolo a volte infiammato e infiammabile, mai spento e spesso a disposizione di estremismi di ogni fatta con lacerazioni profonde.Don Eugenio – che da giovane sacerdote ebbe ruoli significativi nella Chiesa tergestina – si mette in luce per la apertura e dedizione e anche per la capacità di collegare tante esperienze che lo avevano preceduto e rinforzare le caratteristiche del clero e della comunità triestina. La sua capacità di amicizie e di riconoscimenti si allarga al territorio diocesano dove assume responsabilità con la direzione del Seminario in un tempo di cambiamenti ma anche di grandi attese: un servizio che lo vede collaborare anche con la diocesi goriziana che porta a Trieste i corsi teologici dopo il 1968 in un clima di fiducia  e collaborazione con il rettore, don Ennio Tuni.Prima ancora assume in prima persona l’animazione e gestione della sensibilità ecumenica della chiesa e della città: si dimostra “amico” e fratello riconosciuto dalle comunità ebraiche, protestanti e ortodosse di Trieste. Una presenza carica di storia e di meriti, soprattutto di fede, che egli coglie e accompagna per un inserimento alla pari nella più ampia e variegata identità triestina. Lavoro prezioso di testimonianza e di sensibilità.Con l’esito finale del servizio pastorale di mons. Antonio Santin – e la presenza a Trieste di mons. Pietro Cocolin – si allargano le responsabilità di collaborazione anche per don Eugenio: chiamato alla direzione del settimanale diocesano per risaldare l’unità tra vescovo (amministratore apostolico) e giornale; soprattutto con la diocesi e la città. Una stagione breve ma intensa che lo vede misurarsi con una esperienza – quella giornalistica – che inaugurerà un tempo prestigioso per la testata “Vita nuova” che grazie a lui ed al suo successore, rinnoverà i fasti del giornalismo del dopo guerra e del tempo conciliare. In questo don Eugenio è stato un prestigioso maestro perchè ebbe l’umiltà di imparare un mestiere e di rispettarne la professionalità grazie ad una puntuale e decisa immissione nel non sempre facili strade del mestieraccio giornalistico.Una esigenza insopprimibile nella Chiesa: l’unità nella diversità come richiesta insopprimibile. Don Eugenio ne aveva fatto esperienza viva con tante persone nell’impegno ecumenico: una strada non semplice che lo ha trovato preparato e capace di motivare la ricerca della comunione sempre da costruire non facendo prevalere né le storie balorde e un eccesso di dottrinarismo. l’Unità-comunione è capace di costruire una nuova mentalità , quella del dialogo e dell’incontro, della paziente ricerca delle cose che uniscono su quelle che dividono. E’ stata anche la preparazione ad accogliere il servizio episcopale che nel 1983 egli ricevette insieme con il mandato di servire la chiesa di Vittorio Veneto. Una dozzina di anni di inserimento nella esperienza di una comunità veneta e di accompagnamento nella prospettiva di una mutazione: passare dalla identità e appartenenza ad un cristianesimo di adultità e di responsabilità. La strada tracciata con serenità e determinazione ma anche nella pazienza del cambio da assecondare e promuovere in ogni momento.Nel 1997 il rientro a Trieste per accogliere e continuare il messaggio di un amico, il vescovo Lorenzo Bellomi. Un rientro più che un ritorno: le radici non potevano che essere confermate. Si trattava di confermare la pastorale dell’accoglienza e della vicinanza, del dialogo e del confronto, della presenza continua e della condivisione. Una città ed una comunità, quella triestina, che ha condiviso la strada, ardua, del cercare di capire la complessità e di rafforzare la presenza di uomini e donne del futuro: tra Chiesa e società, così si è sviluppato un coraggioso confronto che ha trovato nella testimonianza di Giovanni Paolo II in visita alle Chiese della regione, un potente ed autorevole interlocutore. Le informazioni (venute da Trieste e dalle altre Chiese)  hanno consentito al Papa di parlare appunto sul futuro; di abbandonare le strade della polemica a senso unico e delle rimostranze; di mettere da parte la tentazione della violenza non solo verbale; di aprire la strada ad una rinascita della città e della terra.  Un vero patrimonio sul quale si è saldato il ministero del vescovo triestino: mons. Ravignani ebbe modo di farne testimonianza concreta nelle parrocchie e nel dialogo con la città che seppe far prevalere gli atteggiamenti della fiducia e dell’apertura sintetizzati nella caduta dei confini e nella sfida non più delle ideologie e delle appartenenze ma dell’accoglienza e fraternità. Una fede, quella di don Eugenio, legata alla vita ed una passione per l’uomo nel solco della fedeltà al vangelo. Al suo nome ed iniziativa la beatificazione di don  Francesco Bonifacio e la presentazione per don Jacob Huckmar teologo e pastore: sigillo di una pastoralità convinta e di un gestione del governo.Scelte che hanno avuto un prezzo da pagare: quello di essere insolentito per alcune scelte e prospettive e di avergli reso amaro il ritorno nelle fila della quotidianità. Un silenzio, generoso e signorile, come del resto era sua consuetudine d’animo e di atteggiamenti, ha contraddistinto la sua presenza e opera svolta anche nella nostra diocesi dove ha predicato e celebrato i sacramenti. Nella stagione finale, contraddistinta da quale malattia, non gli ha tolto il gusto tutto suo della battuta e, soprattutto, la testimonianza dell’amicizia che ha saputo conservare come un bene irrinunciabile. La memoria di “don Eugenio”, mons. Ravignani,  resta una benedizione per la sua gente e la sua terra ed anche per quanti lo hanno conosciuto e amato.