Dialogare non significa rinunciare alla propria identità

Sulla copertina del bollettino del mese di maggio-giugno, ricevuta giorni fa dalle mani dell’infaticabile direttore Padre Marciano, troneggia una bellissima immagine del santuario di Barbana, con il cielo solcato dalla scia delle Frecce tricolori. Il pensiero corre subito a questa pattuglia acrobatica nazionale, conosciuta e apprezzata in tutto il mondo, che è una delle peculiarità d’Italia, unica nel suo genere. L’accostamento, tra il santuario della Laguna e il cielo segnato dal tricolore, ha suscitato in me molteplici riflessioni. Mi ha portato a pensare dove stia andando, questa nostra Italia, che sempre più si allontana dalle sue radici e cultura cristiane; mi ha richiamato alla mente quell’abusato termine ’omologazione’ cui si attribuisce un significato improprio, permettendo a sempre nuovi diktat di leggi europee, di disumanizzare, a poco a poco, il nostro vissuto, le relazioni, le realtà e valori fondanti una società e di conseguenza anche la Chiesa, la vita, la famiglia, la dignità della persona umana. Nel novembre 2013, Papa Francesco parlando di dialogo interreligioso ha ribadito la necessità del dialogo e incontro, chiarendo, però, che non si riduca ad una “fratellanza da laboratorio”, pretendendo, magari, che i cristiani rinuncino alle proprie convinzioni religiose e morali. Durante l’udienza al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il pontefice ha sottolineato che: “La Chiesa cattolica è consapevole del valore che riveste la promozione dell’amicizia e del rispetto tra uomini e donne di diverse tradizioni religiose. Ne comprendiamo sempre più l’importanza, sia perché il mondo è, in qualche modo, diventato “più piccolo”, sia perché il fenomeno delle migrazioni aumenta i contatti tra persone e comunità di tradizione, cultura, e religione diversa. Come ho affermato nell’Esortazione Evangelii gaudium, “un atteggiamento di apertura nella verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i credenti delle religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà, particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti” (n. 250). In effetti, non mancano nel mondo contesti in cui la convivenza è difficile: spesso motivi politici o economici si sovrappongono alle differenze culturali e religiose, facendo leva anche su incomprensioni e sbagli del passato: tutto ciò rischia di generare diffidenza e paura. C’è una sola strada per vincere questa paura, ed è quella del dialogo, dell’incontro segnato da amicizia e rispetto. Dialogare, però, non significa rinunciare alla propria identità quando si va incontro all’altro, e nemmeno cedere a compromessi sulla fede e sulla morale cristiana. Al contrario, “la vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa” (ibid. 251) e per questo aperta a comprendere le ragioni dell’altro, capace di relazioni umane rispettose, convinta che l’incontro con chi è diverso da noi può essere occasione di crescita nella fratellanza, di arricchimento e di testimonianza. È per questo motivo che dialogo interreligioso ed evangelizzazione non si escludono, ma si alimentano reciprocamente. È diffuso il pensiero secondo cui la convivenza sarebbe possibile solo nascondendo la propria appartenenza religiosa, incontrandoci in una sorta di spazio neutro, privo di riferimenti alla trascendenza. Ma anche qui: come sarebbe possibile creare vere relazioni, costruire una società che sia autentica casa comune, imponendo di mettere da parte ciò che ciascuno ritiene essere parte intima del proprio essere? Non è possibile pensare a una fratellanza “da laboratorio”. Certo, è necessario che tutto avvenga nel rispetto delle convinzioni altrui, anche di chi non crede, ma dobbiamo avere il coraggio e la pazienza di venirci incontro l’un l’altro per quello che siamo. Il futuro sta nella convivenza rispettosa delle diversità, non nell’omologazione ad un pensiero unico teoricamente neutrale.” Mi sembra importante, come risonanza alle parole del Papa, sottolineare allora, un’espressione, pure lei usurata, che fa riferimento alla necessità di mollare fin dove è possibile, senza abdicare, però, a quello che è il fulcro portante della nostra vita e delle nostre radici. Mi riferisco a quei valori non negoziabili che, pian piano, sono stati relegati nel calderone dell’indistinto ed eliminati, ormai, da quasi ogni discorso, anche ecclesiale, pena venir tacciati di arretratezza.L’Italia, però, ha una sua peculiarità sia storica che religiosa, dalla quale non può prescindere, pena perdere la propria identità di popolo e di nazione. A Roma approdarono Pietro e Paolo; a Roma è la sede di Pietro; da qui, innumerevoli martiri hanno acceso la fiaccola della fede nel Risorto…e dato vita ad uno stuolo di Santi che hanno segnato la storia d’Italia, non meno delle lotte per un’indipendenza e una democrazia raggiunte con coraggiosa fatica. Quel tricolore, lasciato come un abbraccio intorno al santuario di Barbana, è come un richiamo a non perdere di vista le nostre radici e a sentirci ancora “faro di civiltà”, nel senso di riappropriarci di una vocazione/missione particolare per il mondo, una presidenza della carità che si manifesti anche nella sua realtà “laica”. Basti pensare all’accoglienza generosa di tante nostre istituzioni nel mare Mediterraneo verso quell’umanità che bussa alla porta di casa nostra… La nostra Italia, e con essa la Chiesa italiana a tutti i suoi livelli, potrà realmente recuperare la sua vera identità se ci sarà un sussulto di amore per le “cose” di Dio e per le “cose” degli uomini… Da credenti, che coltivano la speranza ad oltranza, affidiamo allo Spirito questo sussulto di novità di vita, certi che il miracolo della Pentecoste possa, ancora oggi, attuarsi, aprendo cammini impensati, per questa umanità  che deve ritrovare il giusto orientamento al proprio andare. Con l’aiuto di Maria, naturalmente!