Detenuti: a immagine di Cristo sofferente in mezzo a noi

Tra i tanti sacerdoti che operano in diocesi, in molti si occupano di realtà “silenziose”, fatte di luoghi e persone che, pur essendo proprio davanti ai nostri occhi, spesso “scompaiono” alla nostra vista, finendo quasi con il dimenticarci di loro, finché qualcosa di eclatante non accade. Eppure, anche in questi luoghi, c’è sempre una presenza, quella del sacerdote. Una presenza gratuita, che non conosce festività ed orari e che è resa possibile anche grazie alla vicinanza dei fedeli ai propri sacerdoti con le firme dell’8xmille e le donazioni liberali.Tra i luoghi a cui accennavamo prima, anche la Casa Circondariale di Gorizia, presso la quale – ormai da molto tempo – presta il suo servizio come cappellano don Paolo Zuttion.

Don Paolo, l’autunno è sempre un po’ un periodo di ripartenza. Qual è in questo momento la situazione all’interno del Carcere di Gorizia? Quali attività sono state riavviate?Dopo la “fase Covid”, durata circa 2 anni, da qualche tempo sono state riavviate un po’ tutte le attività che, in quel tempo, erano state molto ridotte, non c’era per esempio la possibilità che i volontari accedessero all’interno della struttura; la mancanza del loro grande aiuto si è sentita molto, soprattutto per quanto mi riguarda perché ho dovuto, lungo tutto il periodo, sopperire alle attività solitamente messe in atto da loro.Questi volontari fanno parte del Rinnovamento nello Spirito e vengono ogni domenica ad animare le due eucarestie che si svolgono all’interno del penitenziario – due perché nel carcere di Gorizia ci sono attualmente 70 detenuti, divisi in due “sezioni”: quella dei reati “comuni”, e quella dei cosiddetti “protetti”, che include detenuti che hanno commesso reati a sfondo sessuale, isolati dagli altri perché per il “codice non scritto” dei detenuti, chi ha commesso reati di questa natura va punito. Essendo isolati si fanno quindi due celebrazioni -. In questo i volontari sono un grandissimo aiuto perché, oltre ad animare, cantare, aiutare, è bella la presenza del territorio, di persone che appartengono alla diocesi e che vengono all’interno del carcere. I detenuti hanno sentito la mancanza di questa presenza esterna, credo sia anche per loro molto importante.Oltre a questo i volontari si occupano anche dell’attività di distribuzione del vestiario e dei beni per l’igiene personale. Quest’attività, come accennavo, è ripresa dopo un lungo periodo in cui non poteva essere svolta dai volontari e me ne occupavo io; questo per me è molto importante, non solo per l’aiuto ma anche perché è, come dicevo poco fa, testimonianza viva di una presenza esterna dentro le mura del carcere.È ripresa anche l’attività del laboratorio di teatro: qualche settimana si è svolta una rappresentazione teatrale, sostenuta anche dalla Caritas diocesana di Gorizia, che fa parte di un’attività che la compagnia Fierascena persegue ormai da diversi anni con un laboratorio di teatro sociale all’interno del carcere, anche attraverso momenti di confronto e dibattito con il Festival “Se io fossi Caino”, che propone testi teatrali e non solo, anche questo sostenuto da Caritas diocesana.Tirando le somme quindi, è un momento di ripresa per il carcere goriziano.

Quali sono le prospettive per questa struttura, verso quale Carcere ci si sta orientando? Quali sono però anche i bisogni, le necessità?Il Carcere di Gorizia ha bisogno innanzitutto di creare attività che formino le persone. Il problema principale, a mio avviso, è proprio che non ci sono grandi attività, pertanto le persone vivono gran parte del loro tempo nell’ozio, cosa che non è assolutamente riabilitativa. Viene meno quindi quella funzione della pena, come dice la Costituzione, dell’essere riabilitativa, ossia di far sì che la persona ritrovi sé stessa e uno stato di vita per cui possa vivere in società, in relazione con gli altri. Questo purtroppo non accade – vedi anche la grande percentuale di ritorni al carcere di coloro che sono usciti, problema non solo del Carcere di Gorizia ma generale -.Secondo me andrebbero pertanto create possibilità sia lavorative, sia di formazione al lavoro per queste persone che sono incappate in qualsiasi forma di reato. Per quanto riguarda il carcere di Gorizia, è stata acquisita da parte del Ministero di Giustizia una parte limitrofa, l’ex scuola “Pitteri”. Lì potrebbero trovare spazio, lo spero, anche dei laboratori e dei luoghi per una formazione dal punto di vista professionale di queste persone.Non so molto del progetto, ma uno dei miei desideri sarebbe proprio questo. Si sta parlando molto della riforma Cartabia, che mira a far sì che il carcere diventi l’estrema ratio, prevedendo delle misure alternative con le quali il reo possa in qualche modo trovare, o ritrovare, la strada giusta per la sua vita. Queste misure alternative sarebbero anche uno “svuota carcere”: ricordiamo che in Italia le carceri hanno circa 20.000 persone in più rispetto alla capienza prevista (siamo a circa 60.000 detenuti rispetto i 40.000 previsti).Un modo per “svuotare” le carceri è quindi certamente anche quello di implementare le misure alternative, che però hanno bisogno di strutture esterne e un’organizzazione che, per il momento, non vedo e non so se ci sono intenzione, mezzi e possibilità di creare.Ci sarebbero poi tanti altri problemi da affrontare: c’è per esempio un’alta percentuale di detenuti che presenta problemi dal punto di vista psichiatrico e per i quali probabilmente una struttura carceraria non è la più idonea per scontare la detenzione. Si tratta quindi anche di rivalutare le forme con cui far scontare una pena.

Lei ricopre il ruolo di Cappellano ormai da diverso tempo. Cosa significa per lei quest’incarico?Eh sì, sono tanti anni, più di dieci, che mi occupo del carcere. Per me è un confronto continuo con questa realtà, fatta di uomini che vivono momenti di sofferenza – perché il carcere è sempre una sofferenza, una privazione: della libertà innanzitutto e degli affetti ma anche il dover vivere insieme ad altre persone che non hai “scelto” -. La mia missione innanzitutto è proprio quella di essere accanto a queste persone in questa situazione, con tutti i loro limiti, i loro difetti, i loro peccati. Però restano sempre persone, fatte a immagine e somiglianza di Dio; come ci dice il Papa, sono Gesù Cristo.Ho avuto ed ho tante esperienze nell’incontro con queste persone; ciò fa sì che, anche per me, ci sia un motivo di cambiamento e conversione del mio cuore e rende possibile il non giudicare, capaci di accogliere anche quelli che, umanamente parlando, sono “un disastro”, però sono sempre immagini di Dio, immagini di Cristo sofferente presente in mezzo a noi.Questo è un po’ lo spirito che cerco di tener presente nella mia attività all’interno di questo carcere.a cura di Selina Trevisan

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Sete di futuro e come placarla

Torna anche quest’anno la campagna di sensibilizzazione alle offerte per i sacerdoti. Tornano le immagini, catturate nelle parrocchie e negli oratori d’Italia, di ragazzi e di sorrisi, di cortili e di palloni, di abbracci e strette di mano, di anziani e giovani che si ritrovano insieme intorno ad un uomo con un colletto bianco, che alla costruzione di una comunità di questo tipo ha scelto di dedicare tutta la vita. Ecco perché le comunità non possono dimenticarsi di loro. Massimo Monzio Compagnoni è il responsabile del Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica.

Come si caratterizza la campagna offerte del 2022?“Nella forma è una campagna che nasce sulla scia di quella dello scorso anno, che era pensata per estendersi su un biennio. Nella sostanza, però, c’è una grossa differenza: quest’anno stiamo sperimentando tutti un profondissimo desiderio di ricominciare a vivere. Lo respiriamo nei corridoi dei nostri posti di lavoro come nelle aule scolastiche, sui mezzi pubblici come per le strade. Questa sete di speranza e di futuro c’è anche nelle nostre comunità , e i nostri sacerdoti si spendono quotidianamente per permetterci di placarla.

Quale profilo di parrocchia emerge da quello che state comunicando?Quello che le immagini della campagna rilanciano in tv, sulle radio, sul web e sulla carta stampata è esattamente ciò che sperimentano ogni giorno quanti varcano la soglia dei nostri ora tori e delle nostre parrocchie, trovando dei luoghi in cui ogni persona ha la possibilità di essere accolta per quello che è, senza doversi mascherare. In parrocchia nessuno deve vergognarsi dei propri limiti e delle proprie fragilità, e tutti possono mettere a servizio del bene comune i propri talenti. Credo che proprio questo aspetto sia quello che può affascinare di più il cuore dei giovani, almeno di quelli che non si lasciano frenare dai pregiudizi e trovano il coraggio di mettersi in gioco.

Non c’è il rischio di idealizzare un po’ troppo la figura dei nostri sacerdoti?È esattamente il contrario, a mio avviso. Sui media fa notizia l’albero che cade e non la foresta che cresce: si capisce, ma non rende un buon servizio alla verità. A fronte di qualche mela marcia le cui malefatte ogni tanto rimbalzano fragorosamente in tv, sul web e sui giornali, c’è una grandissima maggioranza di uomini sereni e desiderosi di rimboccarsi le maniche insieme a chi ci sta per ricostruire un tessuto sociale che ha un enorme bisogno di fraternità e condivisione, specie dopo il biennio da cui stiamo finalmente uscendo, grazie al Cielo.

Ma perché servono le offerte, per sostenere i sacerdoti?Perché i sacerdoti non fanno un mestiere; rispondono ad una chiamata. E le comunità per cui si spendono sono anch’esse chiamate ad accoglierli come un dono e a prendersi cura di loro. Tutte: quelle più ricche e quelle in contesti più difficili.Per questo le offerte deducibili, volute così dalla legge 222 del 1985, permettono a tutti di contribuire a quest’opera di perequazione. Ma ancora sono troppo pochi icattolici che ne hanno preso consapevolezza: ecco perché, ancora una volta, ci stiamo impegnando in questa campagna per ricordarlo a tutti.I nostri sacerdoti sono affidati a noi e non dobbiamo dimenticarcene: uniti possiamo.A cura di Stefano Proietti