Custodire, entrare, chinarsi

Nel triduo pasquale tre verbi fanno hanno fatto da sfondo alla riflessione di Papa Francesco: custodire, entrare, chinarsi. E c’è un “fil rouge” che lega i tre momenti che va oltre il tempo della Pasqua, tempo aperto alla speranza: si tratta dell’impegno che Francesco chiede ai cristiani. In primo luogo, essere capaci di custodire la carità per non lasciarci “ingannare dalla corruzione e dalla mondanità”, custoditi dall’amore di Dio, del Cristo crocifisso, per essere a nostra volta custodi per amore dell’intera creazione, di ogni uomo e donna. Ed è in quel volto “schiaffeggiato, sputato, sfigurato” che, per il Papa, vediamo i “nostri quotidiani tradimenti e le nostre consuete infedeltà”; è in quel volto, in quel corpo “sacrificato, squarciato, dilaniato, che troviamo il corpo dei nostri fratelli abbandonati lungo le strade, sfigurati dalla nostra negligenza e dalla nostra indifferenza”; dei “fratelli perseguitati, decapitati, crocifissi per la loro fede, sotto i nostri occhi o spesso con il nostro silenzio complice”. Ecco l’invito a non aver paura, a entrare nel sepolcro come fecero le donne la mattina del terzo giorno. Le donne, non gli uomini rimasti chiusi nel cenacolo. “Non si può vivere la Pasqua senza entrare nel mistero”, dice Francesco nell’omelia della notte, la veglia, per sant’Agostino, madre di tutte le veglie. Entrare nel mistero, afferma, “significa capacità di stupore, di contemplazione; ci chiede di non aver paura della realtà: non chiudersi in se stessi, non fuggire davanti a ciò che non comprendiamo, non chiudere gli occhi davanti ai problemi, non eliminare gli interrogativi”. Significa ancora “andare oltre le proprie comode sicurezze, oltre la pigrizia e l’indifferenza che ci frenano”, e cercare “un senso non scontato, una risposta non banale alle domande che mettono in crisi la nostra fede, la nostra fedeltà e la nostra ragione”. Per entrare nel mistero ci vuole “l’umiltà di abbassarsi, di scendere dal piedistallo del nostro io tanto orgoglioso, della nostra presunzione”.Ed ecco il terzo verbo, pronunciato nel giorno di Pasqua: chinarsi. E torniamo alle donne che hanno vinto la loro paura e sono entrate nel sepolcro chinandosi, perché “per entrare nel mistero bisogna chinarsi, abbassarsi”. Non ha bisogno di usare violenza chi ha dentro di sé “la forza di Dio, il suo amore e la sua giustizia”. È alla luce di tutto questo che si può comprendere meglio l’appello alla pace di Papa Francesco, che implora dal Signore “la grazia di non cedere all’orgoglio che alimenta la violenza e le guerre, ma di avere il coraggio umile del perdono e della pace”.La pace che Francesco invoca per le tante nazioni ferite da conflitti e violenze, dalla Siria all’Iraq, dallo Yemen alla Libia, dalla Nigeria alla Terra Santa – qui chiede la cultura dell’incontro tra israeliani e palestinesi, perché riparta il processo di pace – dal Sudan al Kenya dell’insensata violenza contro gli studenti, poggia sul crocifisso, Gesù che morendo ha sconfitto l’odio, ha vinto la morte, ha scacciato le tenebre. I cristiani sono donne e uomini capaci di andare controcorrente “in un mondo che propone di imporsi a tutti i costi, di competere, di farsi valere”; sono “i germogli di un’altra umanità, nella quale cerchiamo di vivere al servizio gli uni degli altri, di non essere arroganti ma disponibili e rispettosi”. Sono coloro capaci di agire “con la forza della verità, della bellezza e dell’amore”. Così Francesco domanda al Signore di “alleviare le sofferenze dei tanti nostri fratelli perseguitati a causa del suo nome, come pure di tutti coloro che patiscono ingiustamente le conseguenze dei conflitti e delle violenze”. Pace e libertà, dunque, per le donne e gli uomini feriti, sfruttati, vittime di nuove e vecchie schiavitù; per le vittime dei trafficanti di droga “tante volte alleati con i poteri che dovrebbero difendere la pace e l’armonia nella famiglia umana”. Pace, ancora, il Papa la chiede per “questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne”. Pace per gli emarginati, carcerati, poveri, migranti “che spesso sono rifiutati, maltrattati, scartati”.