Covid – 19: preti in prima linea

Sono stati tanti, in questi dodici mesi di pandemia, i sacerdoti “scesi in campo” in prima persona, per rimanere accanto a chi è più fragile, per dare un conforto agli anziani, ma anche a chi vive il dramma della solitudine. Purtroppo però, nel loro servizio alla Chiesa e alla comunità, sono molti quelli che, a colpa del virus, ora non sono più qui con noi. La nostra stessa comunità, solo da pochi giorni, ha dovuto dare l’ultimo saluto al caro don Renzo.Il giornalista Riccardo Benotti ha voluto raccogliere le storie di questi sacerdoti nel suo ultimo lavoro editoriale “Covid-19: preti in prima linea”, edito da Edizioni San Paolo.Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare del suo percorso sulle tracce di questi “non supereroi, ma discepoli al servizio del popolo”.

Da dove è partita la tua indagine e com’è nata l’idea (o forse dovremmo dire proprio l’esigenza) di raccontare queste “storie di vita”?Ricordo ancora con emozione le parole pronunciate dal Papa, in uno dei giorni più tragici della prima ondata, quando presiedendo sul Sagrato della Basilica di San Pietro il Momento straordinario di preghiera disse: “È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo”. Da quel giorno mi sono messo alla ricerca delle storie dei preti italiani morti a causa del Covid-19, e ho scoperto presto che nel solo mese di marzo erano già un centinaio. Tante esistenze su cui non si erano accese le luci della ribalta, come spesso capita a chi opera per il bene, ma che meritavano di essere raccontate per dare dignità alla memoria.

Qualemessaggio vorresti arrivasse attraverso questo tuo scritto?Sembrerà paradossale, ma la Chiesa italiana si è dimostrata straordinariamente viva anche in tempo di morte. È viva nei sacerdoti che la rappresentano in ogni angolo del Paese, anche in quelle frazioni sperdute dove mancano persino i sindaci. È viva nella testimonianza delle vite che si sono spese fino alla morte per restare in mezzo alla gente, ma lo è anche nelle centinaia di sacerdoti anziani che hanno vissuto nella fedeltà alla vocazione anche quando l’età li ha costretti al riposo dal ministero attivo. Direi che è proprio qui il messaggio del libro: la normalità di tanti preti italiani che è forse il loro tratto distintivo. Non supereroi, ma discepoli al servizio del popolo fino al gesto estremo di donare la vita.

Nel libro si raccontano storie di molti preti che appunto hanno vissuto la pandemia e il lockdown in prima linea. Tra loro sono però molti quelli che non ce l’hanno fatta… Il “viaggio” che ci proponi è un percorso attraverso il dolore o possiamo leggerci un viaggio verso la speranza?In mezzo a tanto dolore, la speranza non si è mai sopita. Nel libro è rappresentata anche dai preti che non si sono tirati indietro, anche a rischio di morire. Penso a don Fabio Marella, che è il presidente dell’Opera Diocesana Assistenza di Firenze che ospita persone con disabilità fisiche, psichiche e sensoriali. E lui, che è anche cappellano all’ospedale pediatrico Meyer, ha vissuto i lunghi giorni del lockdown affrontando un gravissimo focolaio nelle strutture dell’Opera e restando accanto ai giovanissimi pazienti del Meyer che spesso combattono con malattie terribili. E in un dialogo molto intimo, mi ha rivelato: “Tutta la teologia che ho studiato, i dogmi e le discussioni tra preti cadono. Penso a una mamma divorziata che ha il bambino in oncologia e da anni non fa la comunione perché il parroco non gliela concede? È vero che dobbiamo essere rispettosi delle regole. Ma davanti a una donna disperata che mi chiede Cristo, io dovrei negarglielo? Forse avrò fatto anche cose al limite, ma non me ne pento. Magari ci sono persone che arrivano a messa iniziata, o fanno la comunione e se ne vanno. Ma al Meyer la fede si vive all’essenza”.

C’è qualche figura di cui hai parlato che ti ha colpito maggiormente?Il sacerdote più giovane che è deceduto a causa del Covid-19 aveva 46 anni. Erano anzi due: don Alessandro Brignone, della diocesi di Salerno, e don Paolo Bosio, di Novara. Don Paolo era stato ordinato sacerdote nel 2004 e dopo essere stato vicario per 8 anni, gli era stata affidata la parrocchia del piccolo paese di Momo. Qui era diventato ben presto un esempio di fede e devozione per tutta la comunità soprattutto quando, nell’autunno del 2017, aveva dovuto affrontare una grave malattia che lo avrebbe accompagnato negli anni a seguire. “Tu sei il primo sacerdote sotto i cinquant’anni che il Signore ha chiamato a sé da quando sono vescovo di Novara. È come se mi fosse morto un figlio, anzi un fratello più giovane che era un’anima bella e limpida, generosa e tenera”, scrive in una commossa lettera il vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla. A Momo don Paolo si era impegnato per ricostruire con pazienza la trama lacerata della comunità, dopo un passaggio difficile nella guida della parrocchia. E appena aveva iniziato a raccogliere i frutti di tanto lavoro, la malattia lo aveva colpito con violenza. Eppure lui non si era risparmiato, anche quando non si reggeva in piedi andava a portare il conforto a chi era in difficoltà. Fino al contagio, che ha irrimediabilmente fatto precipitare la situazione.Alla luce della tua ricerca, come vedi questa Seconda – anche se ormai potremmo dire Terza – Fase pandemica? Quali le tue idee?Credo che nel rispetto delle priorità che le istituzioni hanno stabilito nel Piano vaccinale – garantendo la giusta preferenza a medici, infermieri, operatori sanitari e socioassistenziali, forze dell’ordine e professioni impegnate nel pubblico servizio -, sia forse giunto il momento di riflettere sull’opportunità di considerare anche i sacerdoti nella fascia più esposta al contagio. E dunque garantire anche a loro l’accesso al vaccino. In fondo, e lo abbiamo visto durante questi lunghi mesi della pandemia, chi ha continuato a portare pasti caldi ai poveri, a fornire assistenza ai senza tetto, ad accogliere le vittime di violenza, a raccogliere la disperazione di tante persone a cui la mancanza del lavoro ha tolto tutto?Il cardinal Bassetti, nella bellissima presentazione che apre il tuo lavoro, afferma “Nel tempo della pandemia, i sacerdoti hanno davvero espresso il volto bello della Chiesa amica, che si prende cura del prossimo. Hanno donato un esempio autentico di solidarietà con tutti. Sono stati l’immagine viva del Buon Samaritano, contribuendo non poco a rendere credibile la Chiesa”. Quindi, prendendo atto anche di queste affermazioni, al termine della tua ricerca che Chiesa Italiana hai trovato, qual è il suo “stato di salute” e verso cosa si dirige?Pur con qualche acciacco, la Chiesa italiana è ancora una risorsa imprescindibile per il Paese. L’età media dei suoi preti è salita, passando dai 57 anni del 1990 ai 61 anni del 2019, ma la vitalità c’è ancora. Durante la pandemia a morire sono stati soprattutto i preti più anziani, con un’età media di 82 anni in linea con quella delle vittime di Covid-19 nella popolazione generale. Eppure non sono stati soltanto i sacerdoti più fragili o ricoverati nelle case di riposo ad andarsene: oltre 40 di loro, infatti, hanno massimo 75 anni, ovvero l’età limite prevista dal Codice di Diritto canonico per svolgere il ministero di parroco. Sono preti attivi che vivono la missione tra la gente (4 hanno meno di 50 anni), partecipando quotidianamente alle vicende del popolo di Dio loro affidato. E anche tra quanti hanno età superiore ai 75 anni, numerosi proseguono in deroga a ottemperare ai compiti ministeriali come parroci o collaboratori parrocchiali.