Comprendere i cambiamenti, costruire la speranza

Si sono svolti a Matera, precisamente a Scanzano Ionico, dal 25 al 28 marzo i lavori del 41° Congresso Nazionale delle Caritas Diocesane, dal titolo “Carità è Cultura” al quale ha partecipato una rappresentanza della nostra Diocesi di Gorizia insieme al nostro Arcivescovo Carlo.Il dépliant di presentazione contenente il programma del congresso così ha descritto l’evento: “Rappresenta un momento di confronto fondamentale per dare o restituire speranza alle nostre comunità, riscoprendo la dimensione “educante”, con un rinnovato investimento nella formazione e sulla cultura. Si delinea così un duplice ma connesso percorso di impegno: da una parte riuscire ad essere sempre più consapevolmente un riferimento sicuro in rapporto ai fenomeni culturali del nostri giorni, attraverso la capacità di tracciare sentieri di vita illuminati da un nuovo umanesimo cristiano; dall’altra proseguire con convinzione lungo il cammino dei gesti concreti, della prossimità fraterna, della testimonianza della carità in funzione della comunità.Sono stati giorni intensi di relazioni, di dialogo e tavoli di confronto dove ogni partecipante nel gruppo di lavoro scelto ha avuto la possibilità di portare il proprio contributo per arricchire la riflessione su temi quali “L’impegno della Chiesa contro povertà e disuguaglianze: fare memoria, comprendere i cambiamenti, costruire la speranza”. È stato molto utile e importante riflettere su questi argomenti perché mi hanno confermato quanto sia importante in questo tempo che la Chiesa lavori per far riscoprire nelle nostre comunità, e all’interno di ogni gruppo Caritas, la solidarietà evangelica senza la quale saremo tutti veramente poveri. In un periodo in cui c’è sempre meno lavoro, meno prospettive, dove aumentano le povertà dovute a varie forme di dipendenza e di schiavitù, quale possibilità abbiamo per trovare il modo di sostenerci? Le nostre comunità sono spesso luoghi in cui “abitiamo”, ma sono anche luoghi in cui “viviamo”? Non è la stessa cosa, abitare una casa o una comunità e viverla. Faccio un esempio: si può uscire la mattina, rientrare la sera dopo una giornata di lavoro e ripetere questa azione per anni senza necessariamente dover conoscere veramente qualcuno, il mio vicino di casa, avere amici, si conoscono tante persone, magari sui social, ma di relazioni vere e importanti neanche a parlarne. In alcuni casi si può correre il rischio di riuscire a malapena a conoscere i propri famigliari. Tendiamo a chiudere le porte, tutte le porte, quelle fisiche e quelle del cuore per paura, paura che qualcuno possa entrare a portarmi via quello che possiedo; è importante riuscire a mantenere il proprio status, gli altri si arrangino. Possiamo essere tranquillamente convinti che questa sia il solo modo di vivere: ho quello che mi serve, ho i soldi, basto a me stesso; ho la tecnologia che mi tiene compagnia e se ho qualche necessità con il denaro risolvo il problema, non mi serve altro. Succede però che perdo il lavoro e sono troppo avanti negli anni per trovarne facilmente un altro, cerco aiuto, ma gli altri sono come me, chi mi potrà aiutare?  Mi accorgo allora che al contrario di quello che pensavo sono invece molto solo, divento prigioniero di una solitudine che è una delle povertà più grandi. Mi accorgo che il mio disinteresse, la mia indifferenza sono diventati cultura, anche gli altri si disinteressano a me e in questo modo non trovo nessuno che allunghi una mano. La “casa”, la comunità rischiano di spegnersi e muoiono perché manca l’amore. Una luogo invece dove si vuole “Vivere” è fatto di relazioni, di interesse l’uno per l’altro, di amore, di scambio, di vita che nasce, di solidarietà, di incontro, di partecipazione, di inclusione e convivenza pacifica nella diversità. In una comunità così non potrò essere mai solo perché sarò sempre importante per qualcuno, sarò sempre una persona non una cosa, un soggetto da far rendere e produrre, la mia vita sarà comunque diversa perché sarà una vita in relazione con e per gli altri. Far riscoprire una comunità cristiana, evangelica attenta all’altro credo sia una delle sfide più importanti che la chiesa e la Caritas avranno per il prossimo futuro per recuperare la deriva pericolosa che abbiamo imboccato. Nella tavola rotonda che si è tenuta giovedì 28 marzo, Gian Franco Svidercoschi, giornalista e scrittore, ha espresso quanto sia necessaria una Chiesa che sappia ritornare al Vangelo che abbia credibilità, che mostri il volto misericordioso di Dio. La carità è la via unica per vivere il Vangelo, ha continuato, la carità deve diventare stile di vita, perché la carità non ha confini di razza o religione, la Chiesa aiuti la carità a diventare cultura. Marco Damilano direttore de “L’Espresso” ha così spiegato il “Sovranismo”: è la capacità di mettere un confine; di qui non si passa. Ma il confine diventa sempre più stretto fino a diventarlo fra due persone. In tanti si mettono contro i più deboli. Bontà è una parola vietata. Perché l’istinto della paura è più forte della pietà? Perché l’istinto della bontà è così debole? Bisogna essere testimoni credibili per un cristianesimo non culturalmente chiuso e di parte.Cosa può fare Caritas? Dare esempi e storie di umanità, storie di speranza. Non aver paura di essere un Vangelo Incarnato perché le persone non sono un problema ma una risorsa, tutte le persone, tutti gli uomini. È necessario riflettere molto sui tanti aspetti e problemi che la nostra società sta affrontando, la democrazia, come la pace e la convivenza pacifica non sono fondamenti acquisiti una volta per tutte e stabili nel tempo, hanno bisogno di essere sostenuti, valorizzati, tenuti in grande considerazione perché la loro perdita non può essere che nefasta per la nostra vita. Non è con la cultura dello scarto che possiamo avere un buon futuro soprattutto per i nostri figli e nipoti; non è con i distinguo che si costruisce una società umana che sia degna di questo nome, non bisogna perdere la memoria, ma fare memoria, la storia deve continuare ad insegnare. La Caritas avrà bisogno di puntare con più decisione alla sua funzione pedagogica e profetica per cercare di creare quella cultura che nell’attenzione all’uomo faccia crescere comunità attente e inclusive; è un “lavoro” che ha iniziato a fare Gesù che, fattosi povero ci ha insegnato come fare per vederlo, ed essere come Lui vicini al fratello che a noi chiede aiuto.

La cultura, l’ottavo sacramentodi Valentina Busatta

“La cultura è l’ottavo sacramento”: è con questa frase di don Milani che ritorniamo  in Diocesi dopo il Convegno Nazionale delle Caritas Diocesane. In questo momento storico si fa sempre più necessario parlare e vivere una Cultura  intesa come coltivare, avere cura a cui si riferisce il suo significato semantico originale (dal participio futuro latino Còlere=coltivare, aver cura). Coltivare infatti vuol dire anche abitare perché per aver cura e far crescere ciò che coltivi devi esserci, vivere il luogo, la terra. Allora è automatico il collegamento della cultura alla Carità il cui significato lo conosciamo bene: aver caro qualcuno o qualcosa. La cultura è carità (e quindi anche la Caritas) e la carità dev’essere cultura.Il card. Bassetti – presidente della Cei- ha sottolineato:” La carità deve davvero potersi fare cultura fino a rinnovare una comunità; fino a tessere autentiche reti di solidarietà culturale, diffusa e condivisa, per essere Chiesa capace di riscoprire la bellezza della propria missione”.Le Caritas, ma tutta la comunità cristiana, non deve dimenticarsi che la carità, intesa come aver cura- amore, diventa cultura, stile di vita quando è testimonianza, quando fa pedagogia con i fatti, quando mette al primo posto la persona e vive la gratuità. Vive il Vangelo…Monsignor Pizziolo, presidente di Caritas italiana, ha sottolineato che però il cammino delle Caritas è oggi “impegnativo e tanto più arduo in questo tempo in cui il quadro istituzionale e in buona parte il clima sociale sono cambiati e anche le nostre comunità cristiane sembrano sempre più essere condizionate dalle logiche dominanti. Forse (…) siamo vittime (e complici) del radicarsi e del progressivo diffondersi di modelli culturali tipici dei momenti di crisi”. “Ma insieme – ha aggiunto – sarà importante non arretrare su ciò che attiene l’intimo nesso tra carità e giustizia e dunque vigilare sulle scelte politiche e in particolare sulle politiche sociali, ma anche sulla giustizia distributiva”.La Caritas può quindi educare ad una logica di cambiamento culturale attraverso gesti autentici, partendo dalla propria identità, avendola chiara. È infatti più importante ciò che siamo, più che le sovrastrutture che ci siamo creati, e per chi operiamo. E’ nel bisognoso che incontriamo il Signore! Ed il “bisognoso” in fondo siamo tutti noi.In sintesi, nei lavori di gruppo, è emerso particolarmente importante lavorare con la comunità più che per la comunità, coinvolgendola in questa logica o meglio in questo stile di vita che è la Caritas, che è l’Amore, perché possa attivare un processo culturale che inverta l’attuale rotta.Anche Caritas Diocesana di Gorizia sta lavorando in questo senso, perchè possa andare incontro e sostenere la nostra comunità, la nostra diocesi risvegliando uno stile di prossimità e gratuità tra i suoi membri. Ritorniamo a Gorizia con un rinnovato spirito ed entusiasmo, avendo ancor di più cara la nostra comunità che andremo ad incontrare, ascoltare ed ove necessario a destare questo “ottavo sacramento”: La cultura della Carità.