“Come Gesù tra i malfattori…”

Una cinquantina fra cappellani delle carceri del Triveneto, diaconi, religiose, volontari presenti negli istituti di pena, si sono ritrovati, mercoledì 29 marzo, nell’Oasi Sant’Antonio di Camposampiero, Padova, per vivere un momento di spiritualità, introdotto dalla riflessione di don Daniele Simonazzi, cappellano dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario – Casa circondariale di Reggio Emilia.Era presente anche il vescovo referente per la Cet, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo metropolita di Gorizia.  Don Simonazzi ha scherzato sul fatto che il loro è un servizio che nessuno chiede di svolgere, anzi, a volte si è un po’ “costretti” dal proprio vescovo, ma “è un servizio che siamo chiamati a compiere nella misura in cui siamo persone di comunione, presenza di una chiesa che ci manda, non perché non c’è nessun altro, ma siamo invitati a presiedere la Chiesa che è in carcere.Non siamo l’associazione che viene ad animare la liturgia domenicale, è presenza di una Chiesa che non si può permettere di perdere nessuno, perché tutti siamo nei confronti degli altri complementari. La fonte del nostro servizio è il mistero della Trinità, le nostre Chiese in carcere dovrebbero essere espressione di questo, è un fatto di grazia, non solo un fatto organizzativo”.Don Daniele ha anche introdotto il loro ruolo nella mediazione penale, o quella che viene definita ultimamente “Giustizia riparativa”: “Ha molto a che fare con le persone che ci sono affidate e con le comunità, se il nostro ministero fosse solamente dedicato a ricomporre i conflitti, ne avremmo abbastanza. Ma bisogna partire non da chi l’ha provocato, ma da chi è stato vittima del conflitto e prendere sul serio il dolore di chi ha subito e sul serio anche lo scandalo di chi ha colpito”. Bisogna essere consapevoli del dono e della grazia.Non c’è nessuno che possa rendere grazia al padre più di noi che siamo chiamati a questo ministero del cappellano, diacono, dono di grazia, sempre un motivo per rendere grazie alla fine di ogni giornata perché ho vissuto una chiesa che è così. Commentando il brano della Passione dal Vangelo di Luca, don Daniele ha sottolineato che “non ci si improvvisa volontari, cappellani, suore, diaconi, se la tua vita non è conforme a ciò che vai a vivere dentro. Per Gesù Passione è il compimento di una vita. Devastante è il carcere nella vita di una persona” che non può ridursi “al fare l’esperienza di un volontario”. Con un altro atteggiamento da tenere: “Nessuno è all’altezza dell’abisso di chi lo vive”. I presenti sono stati colpiti particolarmente da una sottolineatura fatta da don Simonazzi: “Gesù fu crocifisso tra i malfattori: ecco dov’è la collocazione di un cappellano. Gesù non ha scelto dove essere, è nel suo modo di essere, tra i malfattori. Ogni altra parola ci farà collocare tra i volontari, gli psicologi, i criminologi… Lui ha assunto la loro condizione…”. E ancora: “La nostra fede viene messa alla prova dai “crocifissi”: Dio è Dio per la croce, non nonostante la croce, è una verità crocifissa, dalla croce non si può prescindere”.  Noi – ha detto riferendosi ai presenti – siamo condannati alla stessa pena. Non c’è condanna che abbia potuto sorprendere Dio: “Nessuna condizione umana mette Dio a disagio in ordine al fatto di amarci. Lui ci ha preceduto in tutto. Quando eravamo ancora peccatori, lui ci ha amato. La croce l’ha fatta sua prima di noi. Per me il perdono precede sempre ogni conversione per il mio lavoro. Noi li amiamo di quell’Amore che è l’apice di tutto, che è il perdono. Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. E rivolge, al Padre, la richiesta più difficile: perdonare chi ti ha ucciso il figlio. Lucia Gottardello

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Diffidenza e pregiudizi

Nell’ambito dell’incontro dei cappellani delle carceri del Triveneto, nella Casa di Spiritualità Oasi Sant’Antonio di Camposampiero, si è svolta, nel pomeriggio, una interessante tavola rotonda sulle problematiche del reinserimento sociale degli ex carcerati. Tramite la testimonianza di alcune associazioni operanti nel settore, si sono messe a confronto esperienze maturate in alcune diocesi venete e friulane. Mons. Gino Zampieri, direttore della Caritas di Verona, ha presentato l’attività svolta dalla Fondazione Esodo, di cui è anche presidente, che si propone di assistere e promuovere le persone che si trovano ad affrontare problematiche di vario genere con la giustizia, fuori e dentro il carcere, vivendo in situazioni di marginalità sociale. Nata nel 2011 come Progetto Esodo, questa istituzione si è strutturata come fondazione nel 2016 su iniziativa dei Vescovi delle diocesi di Verona, Vicenza e Belluno-Feltre, cui si sono aggiunte successivamente quelle di Venezia nel 2019 e di Vittorio Veneto nel 2020.Alla fondazione aderiscono anche altri 23 enti del terzo settore che operano negli ambiti della formazione, dell’inserimento lavorativo e dell’inclusione sociale e abitativa. Nonostante la giovane età, la Fondazione Esodo vanta un buon radicamento nel territorio con oltre 2mila persone destinatarie di interventi di inclusione sociale e abitativa.  A confrontarsi con questa fondazione, i cui interventi sono ad ampio spettro, sono state chiamate due piccole associazioni che hanno invece lo scopo specifico di favorire il reinserimento nella società di detenuti usciti dal carcere dopo l’espiazione della pena. Marcello Daniotti, operatore della Caritas di Treviso, affiancato da una volontaria, ha portato l’esperienza della casa di accoglienza per ex detenuti “Il sicomoro”, a Varago, in provincia di Treviso. Nata circa 25 anni fa su iniziativa di don Antonio Trevisiol, parroco di Varago ed ex cappellano del carcere di Treviso, si è nel tempo strutturata stabilmente con una gestione condivisa tra Caritas diocesana (riferimento per la diocesi di Treviso), parrocchia di Varago e gruppo di volontari. Attualmente la casa ha una capacità di ospitare 5/6 persone che con la supervisione degli operatori si autogestiscono all’insegna di quattro parole chiave: fiducia, quotidianità, familiarità, condivisione.  La testimonianza su una esperienza molto simile è stata portata dai responsabili della associazione “Carcere e Comunità” di Pordenone che gestisce la casa di accoglienza Oasi 2 a Cordenons (Pn), dove vengono ospitati una decina di persone tra detenuti in affidamento, agli arresti domiciliari, ex detenuti. Questa realtà è sorta una trentina di anni fa su basi esclusivamente volontaristiche del fondatore Sandro Castellani e si è poi progressivamente consolidata fino all’attuale struttura, coordinata dalla diocesi di Pordenone, cui collaborano due cooperative e un gruppo di volontari.Nel corso del dibattito, è stato sottolineato che per assicurare la riuscita del reinserimento di un ex carcerato è necessario che si verifichino contemporaneamente tre condizioni: avere un lavoro, un luogo dove mangiare, un luogo dove dormire. E le case di accoglienza offrono queste condizioni per un tempo limitato, con il patto che gli ospiti si impegnano a rispettare alcune regole essenziali di convivenza comunitaria e di autogestione degli spazi comuni. Molte le difficoltà incontrate nelle attività di queste associazioni, a cominciare dalla diffidenza e dai pregiudizi delle comunità locali nell’accettare la solidarietà verso le persone in uscita dal carcere che mancano di riferimenti affettivi e famigliari per poter iniziare un percorso di reinserimento nella società. Permangono attualmente problemi di carattere economico nella gestione delle strutture e degli ospiti, e in alcuni casi difficoltà di interagire costruttivamente con le pubbliche istituzioni.  Nonostante tutto, resta comunque un fatto positivo, e cioè che i casi di recidiva per gli ex detenuti passati attraverso le strutture di accoglienza sono decisamente pochi, qualche punto percentuale. E questo, oltre che un vantaggio per tutta la società, costituisce un giusto riconoscimento per l’impegnativo lavoro profuso da tanti volontari.Roberto Basso