Aiutare con responsabilità: il nuovo modo di fare missione

È arrivato in Africa nel 1984 e lì, tranne che per brevissimi intervalli, ha passato 32 anni della sua vita. Don Michele Stevanato, fidei donum in Costa d’Avorio, è rientrato da pochi giorni a Gorizia per una permanenza che, al momento attuale, è a tempo indeterminato.L’abbiamo incontrato e ci ha raccontato di quello che ha lasciato nella “sua” Belleville, la parrocchia della diocesi di Bouaké che ha guidato negli ultimi anni, ha parlato per noi di un Paese ancora scosso dopo le ultime rivolte, ma che sta cercando di diventare coeso e, naturalmente, ha lasciato spazio ai suoi sentimenti a pochi giorni dal Natale.

Don Michele, dopo molto tempo passato in Africa, questo Natale lo passerai qui a Gorizia. Quali sono i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti in questo momento di lontananza?

L’ultimo Natale che ho passato qui è stato nel 1997, ero rientrato per un periodo che doveva essere di 5 anni ma mi fu data la possibilità di ritornare in Costa d’Avorio dopo solo un anno. I sentimenti che mi pervadono in questo momento sono belli, con uno sfondo di nostalgia: dopo tanti anni non festeggerò il Natale con le mie comunità di laggiù, ma lo festeggerò con la comunità cristiana che mi ha inviato in missione, quella di Gorizia, che mi ha sempre aiutato e sostenuto. Vivrò questo Natale come una vera venuta, in un doppio senso: venuta di Cristo per noi, ritorno per me alla gente che mi ha amato e mi ama.

Ti è già stato affidato qualche compito qui in Diocesi?

Nei prossimi giorni incontrerò l’arcivescovo; per il momento ho parlato con don Franco Gismano, direttore del Centro Missionario Diocesano, e sono attualmente a totale disposizione della Diocesi. Vengo per un tempo indeterminato, con la possibilità di poter ritornare in Costa d’Avorio, ma non nell’immediato.

Parlando proprio della Costa d’Avorio, terra a lungo provata da colpi di Stato e guerriglie interne, com’è ora la situazione nel Paese? Quale clima hai lasciato alla tua partenza?

La situazione è apparentemente normale, buona. Si è da poco votato per la nuova legislazione e le tensioni si sono registrate solamente a livello politico, non tra la gente. C’è una certa stabilità, ma basta purtroppo un niente per far riaccendere la fiamma. In ogni caso tra nord e sud, divisi tra ribelli e presidenzialisti all’epoca dell’ex presidente Gbabo, la separazione non c’è più, il Paese è nuovamente riunito.A livello economico il Paese è emergente, si sta mettendo in luce; a mio avviso il popolo è molto tassato, ma è un nuovo modo di gestire la componente economica, ricalcando lo stampo occidentale. Si sta mettendo ordine nelle attività commerciali e si sta provvedendo a una certa catalogazione dei beni e dei terreni posseduti dai singoli cittadini: un fatto normale ma forse andrebbe tenuta maggior considerazione della condizione economica della gente più povera.

La Costa d’Avorio lo scorso marzo è stata scossa da un attentato da parte dei fondamentalisti islamici; un evento che ha sconvolto perché in quella terra i rapporti con i musulmani sono sempre stati buoni e basati sul rispetto. Come sono ora i rapporti tra comunità cattolica e comunità musulmana?

I rapporti continuano ad essere buoni, è servito molto il Forum Interconfessionale che era stato creato a Bouaké nel pieno della crisi politico – sociale del 2010/11. Il Forum prosegue tuttora e ha la finalità di accogliere tutte le confessioni religiose presenti e la presidenza è rotante.Il nostro rappresentante – il vescovo Ahouanan – è stimatissimo e molto spesso i musulmani lo interpellano, anche per la sua funzione governativa: è infatti presidente di un’istituzione che opera per la Pace e la Riconciliazione del Paese, occupandosi delle vittime dell’ultimo conflitto.Dopo l’attentato a Grand Bassam, il turismo è pian piano ripreso, sono stati trovati i responsabili perché c’erano telecamere dappertutto e sono stati arrestati in tempi brevi. I rappresentanti islamici in Costa d’Avorio, a seguito dell’attentato, hanno subito chiesto perdono, dichiarando la loro innocenza, estraneità e discostandosi da questi attentati. Il dialogo continua ed è possibile perché è sempre stato uno dei punti fondamentali nella vita del Paese, così come voleva il “padre della patria” Félix Houphouët-Boigny.

Guardando alla vita della Chiesa ivoriana, nei tuoi 32 anni di permanenza nel Paese come l’hai vista cambiare? Che percorso ha compiuto?

Quando sono arrivato eravamo davvero agli inizi, con oltre il 90% di sacerdoti stranieri e meno del 10% appartenenti al clero locale; non c’erano luoghi di culto e i cristiani erano pochi, ma un cammino era stato avviato dai missionari che si trovavano già nel Paese, che avevano posto le basi per la prima evangelizzazione. Si trattava al mio arrivo di iniziare a “tirare le fila” della situazione, programmare una regolare evangelizzazione, aiutando queste persone nel cammino di conversione, preparandole a ricevere i sacramenti.Oggi i luoghi di culto ci sono, le chiese sono frequentate e piene, nei villaggi – magari piano piano – si prosegue con l’evangelizzazione e i luoghi di culto sono diffusi: basta un semplice edificio, un apatam (una struttura coperta all’aperto, in muratura o di materiali vegetali, ricorda i nostri gazebo. N.d.r.), altrimenti si celebra sotto gli alberi, ma le funzioni sono sempre partecipate.Nei villaggi la gente è ancora semplice, aperta, genuina, in città stanno invece iniziando ad assorbire un po’ i comportamenti occidentali, la vita è più frenetica e tecnologica, la visione della vita è diversa da quella dei tempi in cui ero appena arrivato. In città inoltre c’è una certa diffidenza, causata da tutte le crisi e le ribellioni degli ultimi anni: la gente tende a guardarsi ancora con sospetto. C’è amarezza e sfiducia e mi preoccupa il fatto che questo atteggiamento possa intaccare anche le zone dei villaggi, perché lì c’è ancora una forte solidarietà e come Chiesa si punta a questo, al guardarsi attorno e ad aiutarsi a vicenda, andando incontro ai propri “vicini” e prendendo coscienza delle povertà.

La tua ultima esperienza ti aveva portato a Belleville, quartiere di Bouaké, una delle città maggiori del Paese. Cos’hai lasciato alla tua partenza? Come prosegue la parrocchia?

La chiesa è coperta, ha porte, finestre e vetrate, i banchi e accoglie i fedeli. È praticamente terminata, mancano solo alcuni lavori migliorativi, come all’impianto elettrico, per renderlo più sicuro. Abbiamo iniziato a preparare il presbiterio, è quasi completato e i preti vi possono già alloggiare; hanno quattro stanze a disposizione, una sala da pranzo e una cucina, un piccolo salotto e un bel cortile dove abbiamo sistemato un orto. Una cosa molto bella e significativa è la grotta che abbiamo realizzato accanto alla chiesa, creata con le donazioni dei parrocchiani.Ora, ad occuparsi della parrocchia, c’è un sacerdote ivoriano che è anche assistente diocesano dell’esercito con il grado di comandante, insieme a un cappellano dell’ordine dei Domenicani, che non è fisso ma vive a Nimbo; c’è poi anche un responsabile per le trasmissioni radio, che abbiamo avviato qualche tempo fa.

Cosa chiede oggi l’Africa e la sua Chiesa all’Europa?

Come evangelizzazione oggi siamo al 30% di cristiani tra cattolici e protestanti, i musulmani sono un 40% della popolazione e una larga fetta è rappresentata ancora da animisti. Il lavoro principale è quindi ancora l’evangelizzazione, che non è un semplice accompagnare le persone ai sacramenti ma è la conseguenza dell’Annuncio: quando hai saputo motivare bene una persona, quando l’hai aiutata a lasciare il passato e le vecchie pratiche religiose, allora si può domandarle di fare un passo verso i sacramenti. È una Chiesa, quella ivoriana, che ha bisogno ancora di mezzi e di aiuti per poter far fronte ai numerosi bisogni, primo dei quali aiutare i giovani a compiere i propri studi, prendendoli a carico e occupandosi della formazione, anche dei sacerdoti, non necessariamente con la presenza in loco di un missionario. Si tratta di aiutarli ma nella presa in carico di se’ stessi, responsabilizzandoli, in un nuovo modo di vedere la missione.Rimane poi sempre il problema di sostenere la sanità e la scuola: abbiamo molti dispensari e ospedali, così come strutture scolastiche, ma a volte purtroppo ciò che fa lo Stato non è sufficiente, dal momento che non sempre versa tutto quello che dovrebbe versare in questi campi.