Abbi cura di lui

Lo scorso sabato 11 febbraio la Chiesa ha celebrato la XXXI^ Giornata mondiale del Malato, per quest’anno avente come tema portante, scelto da papa Francesco, “Abbi cura di lui. La compassione come esercizio sinodale di guarigione”.Anche la Chiesa diocesana ha celebrato questa ricorrenza con alcuni momenti di riflessione, formazione e preghiera: il primo vissuto nella serata di venerdì 10 febbraio ad Aquileia con una Veglia mariana e una processione animata dall’Unitalsi diocesana; il giorno seguente a Gorizia, presso la Chiesa di San Giusto è stata invece officiata dall’arcivescovo Carlo una Celebrazione eucaristica.Per la sua omelia monsignor Redaelli è partito proprio dalle parole del Vangelo letto nel corso della Santa Messa: la parabola del Buon samaritano, riportandola come chiaro esempio per quello che può essere il nostro agire quotidiano nei confronti di chi è malato: “’Abbi cura di lui’ è quanto il samaritano, che ha avuto compassione dell’uomo assalito dai briganti e lasciato a terra mezzo morto, dice all’albergatore cui consegna il ferito affinché appunto lo possa curare – ha illustrato il vescovo -. Quell’abbi cura di lui non è uno scaricare su altri l’impegno della cura di un bisognoso. Il samaritano, infatti, non solo si è accorto del ferito che giaceva per terra sulla strada – cosa che non è avvenuta per il sacerdote e il levita -, ma mosso a compassione si è dato da fare per prestargli le prime cure.Mi sembra facile vedere nell’agire del samaritano quello che dovrebbe essere anche il nostro atteggiamento verso le persone malate o comunque bisognose: anzitutto un impegno in prima persona, per quanto è possibile e utile, e poi il ricorso a realtà specializzate, non per “scaricare” a loro il malato o comunque la persona in difficoltà, ma per “affidare” alle loro cure chi ha bisogno, con l’impegno di continuare a star vicino alla persona di cui ci siamo interessati”.Impossibile non pensare poi al drammatico periodo pandemico che tutti abbiamo provato sulla nostra pelle. Nella sua omelia monsignor Redaelli ha richiamato alla memoria quei momenti, ponendoli come “monito” e “sprone” ad essere persone presenti e migliori: “Stare vicino è la cosa fondamentale e che più di altro il malato desidera. Sappiamo purtroppo come il dramma del Covid è stato sì la malattia, spesso molto grave al punto da esigere giorni e a volte settimane di terapia intensiva, malattia conclusasi frequentemente con la morte, ma forse ancora di più il fatto che i malati e anche i morenti – soprattutto nella prima fase della pandemia – siano stati lasciati soli, irraggiungibili, per ovvi ma dolorosi motivi di prevenzione del contagio, anche da parte di parenti e amici. Stare vicino, parlare e ascoltare il malato, fargli una telefonata, mandargli un messaggio, donargli un sorriso (magari nascondendo le lacrime che vorrebbero sgorgare dai nostri occhi), tenergli la mano, fargli una carezza, … sono tutti gesti che esprimono una reale compassione. Dove il termine, lo si capisce bene, indica un con-patire, un soffrire, ma anche uno sperare, un pregare, un piangere, … insieme al malato.Anche la comunità cristiana in quanto tale è chiamata a vivere una reale vicinanza verso chi è malato. Una persona che non deve sentirsi esclusa dalla comunità, cosa particolarmente dolorosa per chi ne è stato parte attiva fino al momento della malattia o del sopraggiungere di uno stato di vecchiaia invalidante. Per questo raccomando che ogni comunità parrocchiale, anzi ogni unità pastorale, abbia un numero sufficiente di ministri straordinari della Comunione, come anche dovremmo riscoprire il sacramento dell’unzione dei malati.La sinodalità, su cui stiamo riflettendo in questi anni, è – come dice il termine “sinodo” – camminare insieme. Lo si deve fare anche nell’affrontare insieme il tema della malattia e del dolore nell’esercitare insieme la compassione verso chi è in difficoltà per la sua salute”.