Il dovere di informarsi
21 Maggio 2025
Domenica 8 e lunedì 9 giugno, gli italiani saranno chiamati alle urne per votare su cinque referendum incentrati sul precariato, sul lavoro, sulla sicurezza del lavoro e sull’immigrazione. Sono consultazioni promosse da organizzazioni sindacali e da alcuni movimenti civici.
In queste settimane, a fare notizia, non sono stati tanto gli argomenti su cui verrà richiesto agli elettori di esprimersi quanto l’ammissibilità o meno degli inviti all’astensionismo, soprattutto quando giunti da esponenti istituzionali.
A ben vedere si tratta di una questione di lana caprina che però si ripete puntuale ad ogni referendum: a voler trovare la risposta “giusta” basterebbe interrogarsi sul perché sia stato previsto dal legislatore un quorum per la validità di queste consultazioni. In questi casi esiste un diritto ma non un dovere ad andare a votare.
Alle elezioni politiche, in Italia, dal 1957 (Testo unico sulle elezioni) e sino al 1993 votare era obbligatorio: chi non lo faceva (senza giustificati motivi) vedeva il proprio nome esposto per un mese nell’albo comunale e nei certificati di buona condotta veniva apposta la scritta “non ha votato”. Qui la strada era diversa e si trattava di non inficiare quel “dovere civico” di voto previsto dall’articolo 48 della Costituzione. La scelta di non essere quel “+1” rispetto alla metà degli elettori fa parte del “gioco” di chi non vuole che il quesito referendario ottenga il successo necessario a modificare la legge in esame ma è allo stesso tempo conscio della difficoltà dei contrari di divenire a propria volta maggioranza.
La via dell’astensionismo, a ben vedere, è quella più semplice per ottenere il massimo risultato: sui 77 referendum abrogativi sottoposti agli italiani dal 1974 ad oggi, il quorum è stato raggiunto in 39 occasioni ma di queste 35 sono temporalmente collocabili fra il 1974 ed il 1995. Successivamente solo 4 referendum su 29 hanno visto recarsi alle urne almeno un elettore oltre il 50%.
Fatta questa premessa, quello che è ingiustificabile è il colpevole silenzio che sta accompagnando questa tornata elettorale sui principali massmedia nazionali. Certamente esiste una disaffezione verso i referendum risalente agli anni ’90 quando a questo istituto democratico ci fu un ricorso massiccio, per i motivi più vari e soprattutto da parte di alcuni partiti politici. La conseguenza è stata il provocare una specie di “rigetto” da parte dell’elettorato (chi ha i capelli bianchi ancora ricorda con disperazione le 12 schede ricevute l’11 giugno 1995…).
Quello che non è ammissibile, però, è la volontà di chi controlla l’informazione pubblica ed i media nazionali di strizzare l’occhio anche in questo campo ai partiti al governo relegando l’informazione referendaria ai “titoli di coda”.
Un dato così palese che una settimana fa è dovuta intervenire l’Agcom per richiamare la Rai e tutti i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici operanti in ambito nazionale affinché garantiscano un’adeguata copertura informativa sui referendum per “offrire ai cittadini un’informazione corretta, imparziale e completa sui quesiti referendari e sulle ragioni a sostegno delle opzioni di voto”.
Nulla di nuovo, però, anche in questo campo sotto il sole: la lottizzazione della Rai va di pari passo ormai ab immemorabili con un certo allineamento dei quotidiani nazionali impossibilitati a sopravvivere senza i contributi pubblici e quindi sempre sottoposti ad una spada di Damocle impellente (soprattutto in un Paese come il nostro dove gli editori puri sono una rarità).
Dinanzi a questo colpevole silenzio, la responsabilità dell’elettore diventa ancora maggiore se non vuole subire passivamente decisioni prese da altri.
Se la notizia non gli arriva, in tempi social può fortunatamente andarsela a cercare navigando fra le pagine web dei proponenti e quelle cartacee di una stampa che continua a credere nel proprio dovere di informare.
Ed una volta informati si potrà decidere se dedicare qualche momento nella propria giornata per votare o stare lontano dalle urne: in maniera però cosciente e non per “sentito dire”, esercitando – in entrambi i casi – quel “dovere civico” del voto che rimane cardine fondamentale dell’impianto costituzionale.
Mauro Ungaro
(Foto Archivio AgenSir)
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