Ucraina: la guerra nella quotidianità

Sono passati due anni da quel 24 febbraio 2022, giorno che ha visto cadere i primi missili russi sul territorio ucraino, dando vita così a quel conflitto che dura appunto ormai da 24 mesi.
Recentemente la dottoressa Giovanna Corbatto, gradiscana che per Caritas Italiana si occupa di Progettazione, proprio con Caritas si è recata in Ucraina per supervisionare alcuni interventi che verranno messi in atto nel Paese.
L’abbiamo contattata e ci siamo fatti raccontare – dopo la sua esperienza di una decina di giorni sul territorio – quale sia la “realtà”, la quotidianità, di questa guerra, proprio così come viene vissuta dagli stessi cittadini di Leopoli e Kyiv.

Dottoressa Corbatto, recentemente si è recata con Caritas Italiana in Ucraina, Paese che da due anni si trova in uno stato di guerra. Quale situazione ha trovato davanti ai suoi occhi? Come viene vissuta, appunto a due anni dallo scoppio del conflitto?

Siamo stati tra Leopoli e Kyiv e ho avuto la visione di una guerra che, paradossalmente, mi ha spaventata molto di più che il pensare alla guerra com’è nell’immaginario collettivo. Dico questo perché ho visto una guerra che è ormai entrata nella normalità del quotidiano; mi ha spaventato vedere come la gente si sia oggi fatta l’abitudine al conflitto, vedere come la sera, dopo il lavoro, si vada a bere l’aperitivo con i colleghi e gli amici, esattamente come facciamo noi, in un pub che può essere anche pieno… ma sei circondato da persone che magari, quando rientreranno a casa, troveranno nella cassetta la “cartolina” di richiamo al servizio militare.
In Ucraina vige la Legge Marziale e sin dall’inizio della guerra gli uomini sono obbligati ad arruolarsi; ora stanno iniziando a richiamare anche coloro che sono usciti dal Paese, perché sta finendo un po’ la “materia prima”. La chiamo così perché il mio primissimo impatto con l’Ucraina è stato proprio alla frontiera con la Polonia, dove si trovava anche un gruppo di uomini che mi ha dato l’impressione di essere un po’ un’”Armata Brancaleone”: c’erano dai ragazzini magri e ancora senza barba, all’uomo ormai di mezz’età non in formissima e con la borsa porta PC che rendeva evidente come la sua professione, fino al giorno prima, fosse impiegatizia e non propriamente quella del “militare tipo”; tutti con gli zainoni militari sulle spalle, si dirigevano in Polonia ad addestrarsi nei Campi NATO. Ho avuto la sensazione, vedendo queste persone che fino a ieri facevano tutt’altro nella vita, di vedere morti che camminavano. Immaginarsi questa gente al fronte, in trincea, o a guidare un carro armato, francamente dà proprio la sensazione di avere davanti agli occhi “carne da macello”. Chi non è stato ancora richiamato vive con questa costante sensazione di avere la “Spada di Damocle” sopra la testa.
In ogni caso, quello che ho visto nel quotidiano è tanta normalità. Non sono stata però nelle zone del fronte e nelle città più colpite, come può essere ad esempio, solo per citarne una, Charkiv. Lì le città sono rase al suolo, sono bombardate costantemente. Lì sì che si vive la guerra così come nell’immaginario collettivo.

Si è mai sentita in pericolo durante la sua permanenza? Come agivate nel corso degli allarmi aerei?

Sono stata fortunata, perché i miei 10 giorni di permanenza sul territorio ucraino sono stati relativamente tranquilli. Ci sono stati degli allarmi, anche durante il giorno, però mai concretizzati, nel senso che non hanno corrisposto ad un attacco. Ma questa è appunto questione di fortuna, se fossi partita solo tre giorni dopo avrei assistito a pesanti attacchi su Kyiv, che hanno fatto anche delle vittime.
Quando suonavano gli allarmi, essendo sul lavoro, dovevamo rispettare delle procedure interne di sicurezza molto precise. Lasciavamo quindi quello che stavamo facendo e scendevamo nei bunker. Si viveva il tutto con una certa tranquillità devo dire, perché come network Caritas abbiamo un coordinatore della Sicurezza, afferente a Caritas Internationalis, di tutti gli operatori delle Caritas nel mondo. A lui dovevamo comunicare ogni nostra posizione, ogni spostamento, ogni rientro a casa. Grazie al suo ruolo ha inoltre a disposizione dei contatti fidati e a volte ci avvisava se quello in questione fosse un allarme a cui dare maggiore attenzione, o si sarebbe concluso nel giro di poco.
In Ucraina, ogni volta che dalla Russia decolla un MIG, viene diramato in tutto il Paese un allarme; il coordinatore era spesso in grado di dirci se il MIG aveva il serbatoio pieno o meno: più carburante c’era, più sarebbe durato l’allarme. Anche in base a questo decidevamo i nostri impegni, coordinavamo e spostavamo incontri, riunioni… Si è trattato di avere un approccio all’agenda molto “fluido”!

Qual è la situazione dal punto di vista degli aiuti e degli interventi nel Paese?

Tutti gli aiuti del network Caritas sono coordinati da Caritas Internationalis sulla base di specifici documenti, chiamati Emergency Appeal, che vengono emessi dalle due Caritas nazionali ucraine (Caritas Spes e Caritas Ucraina, rispettivamente latina e greco – cattolica). Ogni Caritas estera che interviene nel Paese, nel momento in cui invia degli aiuti su una specifica linea dell’Emergency Appeal, avvisa Caritas Internationalis in modo tale che, quando l’importo viene raggiunto, quella linea viene chiusa.
Sempre Caritas Internationalis esegue un monitoraggio costante anche in loco, per verificare che effettivamente le attività vengano implementate e via dicendo.
Nei giorni in cui ero presente ci siamo fermati a Žytomyr, per incontrare la collega di Caritas Internationalis che stava svolgendo delle visite ad alcuni dei servizi che erano stati finanziati appunto da tutto il network Caritas.

Come Caritas Italiana, quali programmi e progettualità si stanno seguendo al momento?

Noi, come Caritas Italiana, siamo in Ucraina dal 2014, perché il conflitto in questi ultimi due anni ha avuto questa recrudescenza ma in realtà la situazione era molto complicata e tesa già da prima. Da due anni abbiamo lì un operatore espatriato, che svolge monitoraggio e accompagnamento più stretto rispetto ai progetti finanziati direttamente dalla nostra Caritas nazionale.
Quello che stiamo cercando di fare, per quanto possibile, è iniziare a spostare pian piano l’ottica dell’emergenza; è chiaro che continuano ad esserci gli sfollati che hanno bisogno di pasti caldi e via dicendo, ma stiamo cercando di finanziare progettualità che vadano da un lato a pensare alla riabilitazione, sia fisica che psicosociale, dall’altro stiamo cercando di finanziare interventi mirati alla ricostruzione delle comunità che comunque, per un motivo o per l’altro, si sono sfaldate – vuoi per i morti, vuoi per le partenze, vuoi per la chiamata alle armi -. Stiamo cercando insomma di fare dei progetti che ricompongano il tessuto sociale, che è un po’ la base poi anche del tessuto economico.
Speravamo si potesse iniziare a parlare di progetti di ricostruzione già a partire da quest’anno ma è evidente che non è così… Questo è il tema che forse ci spaventa di più.

Cos’è cambiato, in due anni, dal punto di vista degli aiuti umanitari?

Ci sono stati grossi contributi e grosse donazioni non appena è scoppiata la guerra. Con questi fondi siamo riusciti a dare risposta appunto alle prime necessità, ma ora chiaramente l’attenzione su questo problema si è un po’ distolta pertanto, quando ci sarà davvero bisogno di tanto denaro e di fondi per ricostruire, la nostra preoccupazione è che, non essendoci più questo “faro puntato” e un’emotività alta verso l’Ucraina, possa essere difficile reperirli.
Per questa ragione, come Caritas Italiana, si è orientati verso il finanziamento di alcuni interventi attraverso la partecipazione a bandi. Mi trovavo in Ucraina perché abbiamo partecipato al Bando Paese dell’AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo) e abbiamo ricevuto un finanziamento, grazie al quale ristruttureremo l’ala di un edificio in uso a Caritas Spes e lo allestiremo per svolgere interventi di riabilitazione, tanto fisica quanto psicofisica; acquisteremo anche dei mezzi per il trasporto dei disabili – perché nelle aree rurali i servizi pubblici sono molto carenti e chi è disabile si trova in grosse difficoltà – per poterli accompagnare ai servizi di cui possono aver bisogno (ospedali, riabilitazione, spesa…); provvederemo poi alla formazione per tre unità mobili di telemedicina.

Dal punto di vista dei profughi e degli sfollati, qual è la situazione attuale?

In generale c’è una grossa mobilità. Gli ucraini tornano spesso in patria, poi magari tornano in Italia, come si dice “fanno la spola”. Ovviamente chi ha figli maschi ormai prossimi all’età di leva, generalmente evita di rientrare, ma donne sole partite con figli ancora piccoli, spesso rientrano nel Paese.
In Ucraina è cambiata sicuramente la demografia: Leopoli ha avuto un’esplosione demografica, perché tanti vi si sono trasferiti dalle parti più vicine al confine con la Russia e più colpite; Kyiv invece sta conoscendo uno spopolamento. Ma è cambiata la demografia anche delle città nei Paesi circostanti, penso ad esempio a Rzeszów, in Polonia, dove c’è un aumento incredibile della popolazione perché vicino ai campi di addestramento, pertanto è pieno di personale NATO ed essendo anche vicino al confine è diventata meta di tanti ucraini che scelgono di trascorrere qualche giorno lontano dagli allarmi aerei.

Prima accennava a progetti relativi alla riabilitazione, fisica e psicofisica. Sicuramente le “ferite”, tanto fisiche quanto invisibili, sono tante…

Ci sono tantissime persone – e tra queste, purtroppo, tantissimi giovani – che hanno subito amputazioni.
Mi è stato detto che d’estate la cosa è più evidente, perché queste persone escono di più, in inverno invece spesso le temperature scendono di molto sotto lo zero, le strade e i marciapiedi si ghiacciano e diventano luoghi pericolosi per tutti e ancor di più per chi vive la disabilità.
Si ha la percezione della ferita, anche fisica, che questo conflitto ha portato, per quanto appunto ormai sia entrato nella quotidianità della vita di queste persone.
Sicuramente un grosso lavoro da fare sarà relativo alla creazione di protesi e alla riabilitazione per queste persone.
Sarà di certo un tema sul quale bisognerà lavorare tantissimo.

a cura di Selina Trevisan