Si concretizza l’esperienza delle Unità pastorali

Rivoluzione o opportunità?

Non è facile riflettere sulle nuove unità pastorali che partiranno da settembre e che modificheranno la struttura della Chiesa diocesana sul territorio. Dopo l’incontro dell’Arcivescovo, a S. Rocco di Gorizia, con i quattro consigli pastorali interessati, ci sono state diverse reazioni,  prima un momento di silenzio, forse i presenti si aspettavano qualcosa di diverso, poi, di fronte alla  proposta di un cambiamento che possiamo definire “epocale”, era necessario un discernimento personale e comunitario prima di esprimersi.In questi mesi sono emerse le difficoltà di accettare che alcuni sacerdoti “storici” lasciassero il loro incarico di parroco,  visto che un prete non va mai in pensione, come ha sottolineato l’Arcivescovo, pur  rimanendo al servizio della diocesi nello stesso luogo dove hanno svolto il loro ministero per tanti anni. Questo è stato un primo segnale o testimonianza: il sacerdote è al servizio di una comunità, ed essa non può e non deve identificarsi con lui. Il parroco di S. Anna, don Diego, ha iniziato subito a far riflettere e pregare affinché questi cambi siano accettati e portino frutto.A livello umano si creano relazioni, alcune anche profonde e si può soffrire, ma nel credente deve prevalere il senso della testimonianza che ogni comunità deve dare, qualunque sia il presbitero  che la guidi e presieda i riti.Riflettendo, è doveroso domandarsi se questa “rivoluzione”, come alcuni a caldo l’hanno definita, non vada letta come “un segno dei tempi” e quindi chieda a tutti i credenti, una testimonianza costante e forse segni anche la fine di un clericalismo, tanto contestato da alcuni, ma che in determinate situazioni poteva far comodo.Un pensiero va al futuro, alle difficoltà che i nuovi responsabili delle unità pastorali avranno: la loro presenza in due/tre/quattro comunità, l’orario delle Messe, come svolgeranno il loro importante e delicato compito dell’ascolto e della guida spirituale.A mio giudizio, il discernimento spetta soprattutto ai laici, i quali sono chiamati a diventare i protagonisti della vita comunitaria, alle opportunità che il lavorare insieme tra comunità vicine si potranno cogliere. Non si tratta di cancellare storie, alcune anche pluricentenarie, ma scambiarsi le specializzazioni e il lavorare insieme dalla catechesi, ai giovani, alla carità, ai grandi temi che interessano la città. In questi anni la Chiesa goriziana è stata forse troppo in silenzio e sui temi sociali e politici è doveroso che le comunità cristiane della città esprimano il loro pensiero anche se talvolta può andare controcorrente. Papa Francesco, con le sue parole alla veglia di preghiera con i giovani italiani, lo scorso 11 agosto, ha invitato a non essere pessimisti, a non smettere di sognare, a essere attenti al clericalismo, perversione della Chiesa, che si sviluppa quando non c’è la testimonianza cristiana; perché dove non c’è testimonianza, non c’è lo Spirito Santo; perché la Chiesa senza testimonianza è soltanto fumo. Commentando il passo del Vangelo nel quale Giovanni corre più veloce di Pietro verso il sepolcro vuoto, il Papa ha invitato i presenti a non accontentarsi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila. Ha esortato: ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarsi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fratellanza. Rischiate, andate avanti.Le sue parole ci possono aiutare in questo momento particolare, ma la Chiesa goriziana è pronta?Michele Bressan

Una non-novità nella Chiesa italiana

Dopo un cammino preparatorio di ascolto e riflessione durato qualche anno, anche la diocesi di Gorizia ha dato avvio ufficiale alla costituzione delle Unità Pastorali. La stampa laica ha utilizzato il termine “super-parroco” per definire il responsabile dell’equipe, formata da sacerdoti, religiosi, diaconi e laici, parlando di una vera rivoluzione nella struttura delle parrocchie.  Se, in effetti, per la diocesi goriziana si tratta di una novità, non lo è affatto nel contesto italiano ed europeo: in Italia le prime esperienze risalgono agli anni ’90 dopo che il termine stesso di Unità Pastorale era stato utilizzato per la prima volta nel 1992 in una comunicazione al Consiglio Presbiterale della diocesi di Trento che traduceva la parola tedesca Pastoraleineihte, proposta da un documento del Consiglio Presbiterale di Colonia. Già nel 1993 si svolse ad Assisi un convegno su Le unità pastorali. Verso un nuovo modello di parrocchia, cui ne seguirono altri, mentre nella Nota Pastorale CEI del 2004 si afferma: “L’attuale organizzazione parrocchiale, che vede spesso piccole e numerose parrocchie disseminate sul territorio, esige un profondo ripensamento…  È necessario peraltro che gli interventi di revisione non riguardino solo le piccole parrocchie, ma coinvolgano anche quelle più grandi, tutt’altro che esenti dal rischio del ripiegamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che è finito il tempo della parrocchia autosufficiente…  Con le unità pastorali si vuole non solo rispondere al problema della sempre più evidente diminuzione del clero, lasciando al sacerdote il compito di guida delle comunità cristiane locali, ma soprattutto superare l’incapacità di tante parrocchie ad attuare da sole la loro proposta pastorale”.Ormai le esperienze di integrazione fra parrocchie sono molte e diversificate anche nei nomi: Unità Pastorali, o Collaborazioni Pastorali, come nella diocesi di Udine, o Comunità Pastorali a Milano.A monte di questa trasformazione delle realtà parrocchiali si collocano i cambiamenti epocali della nostra società, che hanno determinato una significativa riduzione del clero, ma anche dei fedeli, e una mobilità territoriale che riduce il senso di appartenenza. Secondo i dati forniti dal Presidente dell’Osservatorio Socio-Religioso del Triveneto, Alessandro Castegnaro, nel 2028 il 50-60% delle parrocchie trivenete sarà privo di un parroco residente (nel 1970 era il 5,7%); nel 1970 c’erano 870 abitanti per ogni sacerdote, nel 2028 ce ne saranno 2800.Quali le prime reazioni in diocesi di fronte alle novità pubblicate sulle Unità Pastorali? Al momento sulla riflessione riguardo alle prospettive future di ecclesiologia di comunione e di pastorale integrata, probabilmente prevalgono, nei Consigli Pastorali Parrocchiali e nei fedeli che ne sono venuti a conoscenza, sentimenti di dispiacere e preoccupazione per i trasferimenti dei propri parroci e collaboratori: aspetto che, da un lato, rimarca il legame affettivo di una comunità con i suoi sacerdoti, dall’altro, lascia trapelare la normale e diffusa resistenza al cambiamento, con gli interrogativi su cosa succederà nell’organizzazione della vita parrocchiale e nelle sue relazioni. Qualcuno osserva infatti: “Ogni cambiamento spaventa, ogni cambiamento viene sempre vissuto con timore”, aggiungendo però la fiducia “che si stia aprendo una stagione nuova verso una chiesa in uscita, capace di stare in spazi altri di bene comune”.Da un’altra parrocchia proviene la seguente riflessione: “Le unità pastorali sono una importante opportunità ecclesiale in quanto realtà e simbolo di comunione; l’archetipo rimane sempre la comunità apostolica e in ultima analisi la Trinità d’Amore. Perciò pastori e laici, quindi le comunità, devono imparare a discernere: qual è la volontà di Dio qui e ora? Quali le possibilità di bene oggettivo nella realtà concreta qui e ora? Cosa ci sta chiedendo Dio? In generale vi è un bisogno di cambiamento di prospettive. È importante che i parroci e i consigli pastorali non si interpretino come semplici garanti dell’esistente ma imparino ad osare, a spingersi un po’ più in là, ragionando davvero in termini di rete di talenti e di carismi, dando voce e maggior potere anche alla comunità cristiana laica. È un cambio di paradigma che richiede formazione ed educazione”.Come per ogni cambiamento significativo, ci vorranno tempo e l’impegno di tutti perché questa novità produca frutti positivi. Un membro di C.Pa.Pa. dichiara infatti che “ci aspetta un compito arduo e delicato ma anche stimolante e avvincente!”, augurandosi che l’esperienza delle parrocchie più vivaci possa contagiare la vita di piccole comunità prive di aspettative e di apertura al nuovo. Gabriella Burba

Il “progetto” c’è: vivere la fede da credenti adulti

In un tempo nel quale il cambiamento dovrebbe essere all’ordine del giorno – siamo governati tra l’ altro  da un esecutivo che si definisce “di cambiamento”! – ci si  dovrebbe misurare facilmente con ciò che invece ci risulta difficile e, anzi, provoca reazioni diverse. Una fra le tante, è stata quella ascoltata nelle scorse settimane all’oratorio S. Michele in occasione delle comunicazioni dell’arcivescovo in merito al futuro delle parrocchie cittadine di Monfalcone e quindi alla comunicazione di nuovi incarichi per alcuni sacerdoti. Al centro di tutto l’ istituzione di quelle che vengono chiamate comunità pastorali, cioè la messa in comune di alcune parrocchie sotto la guida di un unico sacerdote responsabile e parroco di tutte e quattro (in questo caso: Duomo, S. Nicolò, S.S. Redentore e BV Marcelliana). Dunque avremo la designazione del parroco che opererà in collaborazione con altri sacerdoti sul territorio secondo un progetto condiviso con tutti.Dove si identifica però il “progetto”, in questa scelta che pare dovuta anche alla relativa mancanza di sacerdoti? E di che progetto si tratta? La tipologia, la definizione di responsabilità da quelle rappresentative, operative ed anche economiche e burocratiche … Occorrerà un po’ di tempo e di sperimentazione in comune oltre che di strategia alla ricerca di strumenti e modelli di azione e di promozione, di presenza e di testimonianza della comunità cristiana, nelle sue diverse componenti (laici, religiosi e religiose, sacerdoti) con la guida del vescovo.L’ introduzione dell’arcivescovo e, prima, la lettura del testo paolino della Lettera agli Efesini, ha messo a fuoco che la comunità cristiana nasce dalla Parola e dai sacramenti, che vive della carità, che si costruisce mettendo insieme i doni di ciascuno per il bene di tutti e che , in questa crescita, può trovare motivazioni solide; quanto agli strumenti, dovranno essere conseguenti con questo orientamento considerando che alcune forme del passato sono superate. L’altro aspetto da mettere a fuoco – e, purtroppo, non è sempre presente in modo automatico, coordinato e conseguente- è rappresentato dall’ascolto delle esigenze delle persone, della accoglienza e della condivisione, della vita di fraternità e di amore a servizio proprio dei più poveri e più bisognosi. Una dimensione complessa non solo per la diversità delle situazioni, ma che esige letture diversificate che attengono alla vita delle persone, alla loro tradizione, alle stesse suddivisioni parrocchiali spesso intese come muri invalicabili o criteri geografici. Di più: i mutamenti in atto con la fine della stagione della “cristianità consolidata” , configurano non solo presenze diverse – nel Territorio che viviamo, i cattolici hanno a che fare con altri cristiani, con altre religioni ed in specifico con quella islamica con una realtà numerica significativa – ma anche l’esigenza di ridare certezze e riconoscimenti comprensibili.  In particolare e, soprattutto, viene richiesto alle parrocchie (ai preti, religiosi e laici) di essere comunità capaci di dialogo, di incontro, di condivisione e di speranza per il futuro: in altri termini di finirla con lo spremersi in inutili confronti autoreferenziali per prendere atto delle mutazioni rispondervi attivamente. Conoscere le diversità, ricostruirsi una identità dialogica, mettersi in ascolto della Parola e riscoprire la valenza dei sacramenti non come segni magici ma come aiuto ad assumere la propria fisionomia di credenti e di testimoni nella società di oggi. Molto ascoltare e poco proporre. Tutti dobbiamo fare la nostra parte.Riscoprire il senso del “servizio”, essere comunità che vivono la ministerialità non al proprio interno ma fuori, a servizio della comunità dei fratelli e delle sorelle in ogni ambito, accettare la sfida di comunità costituite da battezzati che forse, sì non frequentano, ma non hanno rinunciato a qualche forma diversa di religiosità, che spesso pretendono segni di religione civile (vedi i crocefissi o il vangelo brandito…). E, in specifico, ritrovare, forse inventarsi un linguaggio ( o più di uno) per parlare all’uomo ed alla donna di oggi, ai giovani del nuovo millennio, ai ragazzi, agli anziani e bambini … appare decisivo. E, allo stesso tempo, cogliere e far cogliere che la Fede non è moralismo, identità ed appartenenza, ma servizio, seme, vita… da suscitare e vivere nella quotidianità. In un contesto culturale di totale apertura e senza possibilità a fare ricorso a doveri e principi; tantomeno a schemi del passato.Ecco – in sintesi approcciata per l’occasione, ma bisognevole di approfondimento e ulteriore studio molto presto – il progetto e la progettualità di Fede, di Chiesa, di futuro. Una progettualità che -sia pure con qualche limite- si è tentato di proporre e di delinearne in questi anni le configurazioni  principali cioè appunto il progetto. Un “progetto” che è quello del Concilio e della testimonianza di Papa Francesco, nella linee evidenziate dallo stesso arcivescovo negli ormai sei anni di preminenza tra di noi. Le “regole” non solo vengono dopo e dovranno essere costruite e condivise con pazienza e fiducia; anche con la necessaria e grande passione ed entusiasmo come alcune voci hanno manifestato nella occasione dalla quale partono queste righe. Anche in questo caso si dovrà riconoscere che la delineazione del progetto e delle stesse regole, è stata tentata e promossa: nel Decanato si è lavorato intensamente anche se qualcuno non se n’è accorto. Troppi i silenzi e le assenze, soprattutto i disimpegni, quando si è tentato di dare corpo a voci e sensibilità, soprattutto di sollecitare responsabilità attive in ogni parrocchia, per ogni credente uomo e donna.Sia allora un tempo nuovo che non è privo di queste esigenze e richieste; molti in silenzio hanno risposto con la propria testimonianza a queste esigenze e situazioni. In tanti hanno sofferto davanti a ripetizioni stanche del passato, implorando di abbandonare schematismi che guardano all’indietro e non costruiscono futuro. Tutti possono essere consapevoli che alla domanda di rinnovamento non si risponde con qualche moda estemporanea. La costruzione, paziente e pacifica, del Regno di Dio, ha bisogno della determinazione, della fantasia e anche della dedizione obbediente  appassionata di tutti.Salvatore Ferrara, don Renzo Boscarol e Guido Baggi