Lontani dalla patria

Durante la Grande guerra su tutti i fronti, dal Belgio alla Galizia, dai Balcani al Friuli, si verificarono flussi di polazione che misero in moto diversi milioni di persone, un fenomeno europeo le cui dimensioni sono notevoli per entità ed estensione geografica. Quasi ovunque ad essere coinvolte furono le popolazioni di frontiera, spesso costituite da minoranze nazionali, elemento questo che rese più difficili i rapporti con autorità e popolazioni ospiti: a seconda dei casi i profughi conobbero solidarietà patriottica e sospetto, sentimenti umanitari e atteggiamenti di esclusione e persecuzione.Anche i profughi delle zone di frontiera dell’Impero asburgico, Trentino e Litorale (Contea di Gorizia e Gradisca, Trieste e Istria), a seconda delle circostanze si trovarono a vivere in mezzo a qualcuno dei tanti popoli dell’Impero, sì da cittadini asburgici ma di lingua italiana, o, dall’altra parte del fronte, da profughi di lingua italiana ma sudditi della Monarchia asburgica, per non parlare dei profughi di lingua slovena che vennero evacuati in Italia. Un intreccio di appartenenze nazionali e di sudditanze legali che rese più problematica la loro esperienza, sospesi fra due patrie. In quest’occasione ci soffermeremo brevemente sul destino di quanti vennero evacuati o fuggirono verso l’interno dell’Impero asburgico, almeno 240.000 persone, di cui 140-150.000 italiani (circa 75.000 dal Trentino, i rimanenti dal Litorale) e 90-100.000 tra sloveni e croati. Nel maggio 1915 vi fu una prima grande ondata dovuta alle evacuazioni predisposte dalle autorità politiche e militari dell’Impero, che coinvolsero numerose aree del Trentino meridionale, l’Istria meridionale e non poche località del futuro fronte dell’Isonzo, in particolare i paesi ai piedi dell’altopiano carsico. A questa prima grande ondata ne seguirono altre, in particolare nell’agosto 1916 (Gorizia e dintorni) e nell’estate-autunno 1917 (altopiano della Bainsizza).Alla base dei provvedimenti di sgombero stava la necessità di allontanare la popolazione dal teatro di combattimento, ma anche motivi relativi alla sicurezza militare (spionaggio e sabotaggio), al bisogno di sfruttare le retrovie per le esigenze logistiche delle truppe, e non ultimo alla diffidenza verso popolazioni non di rado considerate poco affidabili. La scelta della gente tra partire e rimanere, quando fu possibile scegliere, fu motivata solo in parte da fattori politico-nazionali. A spingere alla fuga furono soprattutto la paura della guerra e delle sue conseguenze, l’insostenibilità delle condizioni di vita a ridosso delle prime linee e la volontà di non perdere i contatti con i congiunti, fuggiti a loro volta o arruolati nell’esercito austriaco, mentre il timore di un incerto destino, l’attaccamento alle proprie case, alla terra, ai familiari che non volevano o non potevano partire, furono prevalenti nella decisione di rimanere.In Austria il governo si assunse l’onere dell’assistenza, considerata però una concessione discrezionale e non un diritto dei profughi. Altri interventi (comitati di assistenza, amministrazioni provinciali, ecc.) vennero ammessi solo se subordinati alle politiche statali, miranti a rafforzare la fedeltà allo stato. Ciò nonostante, il “Comitato di soccorso per i profughi del Meridione” – sorto nel luglio 1915 e animato da personalità del mondo politico, culturale ed ecclesiastico delle aree di provenienza (tra cui Luigi Faidutti, Giuseppe Bugatto e Alcide Degasperi) – ebbe un ruolo di primo piano e divenne un interlocutore del governo in tutte le principali questioni riguardanti i profughi. La maggior parte dei profughi venne sussidiata in denaro e dispersa in piccoli gruppi nelle varie regioni dell’Impero (la cosiddetta “diaspora”), alle prese con scarsità di generi alimentari e di vestiario, alloggi fatiscenti, insufficienza dei sussidi, soprusi delle autorità locali e contrasti con le popolazioni ospiti. Se vi fu in molti casi solidarietà, altrove, spinte anche dall’atteggiamento ostile delle autorità locali, le popolazioni tendevano a considerare i profughi una delle cause delle proprie privazioni, quando non addirittura “nemici e traditori” della patria. I profughi, quindi, divennero in molte occasioni il capro espiatorio del malcontento delle popolazioni della Monarchia per le sofferenze causate dalla guerra.La parte rimanente dei profughi, per lo più anziani e donne con prole numerosa, venne mantenuta in natura nei campi profughi appositamente costruiti. I principali Barackenlager destinati ai profughi di lingua italiana furono Wagna (Stiria), Mitterndorf e Pottendorf (Bassa Austria) e Braunau (Alta Austria), città di legno capaci di ospitare dalle 5.000 alle 20.000 persone, dotate di chiese, scuole, officine, ospedali ed altri servizi, ma dove condizioni di vita particolarmente dure, specie alimentari e igienico-sanitarie, provocarono morbilità e mortalità, specie infantile, molto alte. L’uso di strumenti di coercizione e controllo (residenza coatta, sistemi di disciplina sommaria, gestione gerarchica autoritaria) e la dimensione collettiva dei campi fanno del Barackensystem – come venne chiamato allora – un’istituzione che può essere inscritta all’interno di quei modelli concentrazionari che proprio durante la prima guerra mondiale conobbero un notevole sviluppo. Sia nei campi che nella “diaspora”, inoltre, i profughi costituirono una riserva di manodopera a basso costo da impiegare, anche grazie a misure di coazione al lavoro, in agricoltura e nelle aree industriali; d’altro canto l’avere un lavoro consentiva ai profughi di disporre di qualche risorsa in più e costituiva una premessa necessaria per poter uscire dai campi profughi, mentre attività produttive sorsero negli stessi campi. Solo a partire dalla primavera-estate del 1917 la riapertura del Parlamento e le denunce dei deputati – con i popolari isontini e trentini in prima fila – portarono all’adozione di una serie di riforme nell’organizzazione dell’assistenza, nonché al varo di una legge di tutela che sancì i diritti all’assistenza, al lavoro, alla libertà di movimento. Il deteriorarsi delle condizioni di vita nella Monarchia, però, diminuì l’effetto di questi cambiamenti: l’unica prospettiva di soluzione apparve sempre più il rimpatrio, avviato dopo Caporetto, ma a causa delle devastazioni belliche portato a temine solo nei primi mesi del 1919.Quasi tutti, alla fine, rimpatriarono, portandosi dietro un carico di amarezze e sofferenze che, al di là del peso che ebbe sui destini individuali, rappresentò senza dubbio un fattore non insignificante nella radicalizzazione delle tensioni sociali e politiche del dopoguerra.