I sacerdoti internati

Nei primi giorni di guerra la zona di Caporetto, nell’alta valle dell’Isonzo, e la pianura friulana, dal Collio al mare, vennero rapidamente occupate dalle truppe italiane, mentre il resto della Contea, Gorizia compresa, rimase sotto il controllo austriaco.Il fronte separava mons. Sedej dalla parte della diocesi occupata dall’esercito sabaudo.In genere, i sacerdoti rimasti sul territorio vivevano con apprensione la situazione. Per un sacerdote italiano o sloveno educato e vissuto nello stato austriaco era normale, in un momento come questo, considerare l’Italia il nemico invasore cui si attribuivano pure forti connotati anticlericali. Tra i sacerdoti friulani era presente un sentimento di italianità, ma generalmente vissuto come appartenenza culturale alla nazione italiana, sentimento questo che raramente (pochi erano i casi) portava ad abbracciare la fede irredentista.L’impatto del clero locale con le truppe d’occupazione assunse molto spesso toni drammatici. L’esercito italiano al suo arrivo operò tutta una serie di internamenti politici. A subirli furono soprattutto i sacerdoti e i laici maggiormente impegnati politicamente nel movimento cattolico o particolarmente vicini al clero. Circa una sessantina di parroci vennero infatti rimossi ed internati. Tra questi una quarantina erano italiani (87% del clero incontrato dalle truppe sabaude) e 18 sloveni (circa il 50%). In totale viene internato l’80% dei sacerdoti incontrati dalle le truppe italiane. Un grosso numero di cure d’anime, sia italiane che slovene, rimasero senza rettori.Questi internamenti vennero giustificati dalle autorità d’occupazione con la necessità di sventare l’attività di elementi politicamente infidi, tra i quali era facile inserire i sacerdoti. Il clero internato sentiva come una “evidente ingiustizia” questi provvedimenti adottati “per futili e vani sospetti e sotto l’imputazione menzognera di azioni criminose a danno dell’esercito”. Sono parole di don Carlo Stacul, decano di Gradisca, che durante gli anni d’internamento cercò di fornire aiuto e contatti ai tanti preti che come lui avevano subito l’internamento. Le modalità, spesso brutali, degli arresti; il fatto che molti furono oggetto di violenze fisiche e morali; l’obbligo al domicilio coatto: tutto ciò incise come una ferita profonda gli animi di questi sacerdoti.  Gli internati ebbero sorti e destinazioni diverse, soggetti a trasferimenti in varie località lungo la penisola, con un grado di controllo da parte militare che lentamente si andò attenuando, ma pur sempre nella sostanziale limitazione della libertà personale. È ancora attuale la ricostruzione delle loro vicende offerta da Camillo Medeot, il quale ha raccolto lettere, testimonianze, documenti e pagine di diario di quelle tristissime esperienze.Pochi furono i preti dicoesani cui venne concesso di rimanere nelle proprie sedi. Triste il caso del parroco di Aquileia, don Giovanni Meizlick, che pur si mostrò bendisposto verso le truppe italiane, internato a luglio su indicazione dei comandi militari per far posto a don Celso Costantini; così pure quello del suo cooperatore, don Francesco Spessot, che sarà l’ultimo degli internati isontini.A tenere vivi i contatti tra di loro fu in particolare don Carlo Stacul, parroco-decano di Gradisca. Attraverso di lui vennero distribuiti i sussidi straordinari che giungevano dalla Santa Sede o dall’Arcivescovo di Gorizia. Mons. Sedej, al quale giunsero lettere e notizie da parte degli internati, si impegnò per riuscire ad ottenere un trattamento decoroso per i propri sacerdoti. Era infatti difficile per essi vivere senza delle entrate stabili e lontano dai propri benefici. Un sacerdote austriaco si manteneva normalmente grazie alla congrua erogatagli dal Fondo di Religione in relazione al ruolo svolto all’interno della diocesi. Trovandosi questi preti costretti al domicilio coatto in uno stato nemico, non poteva venir loro direttamente corrisposta la congrua da Vienna, e altresì gli esigui fondi messi a disposizione dallo Stato italiano finirono presto. Subentrarono cespiti precari, come i diritti di stola corrisposti per le intenzioni per le S. Messe o qualche donazione straordinaria. La caritatevole accoglienza di diversi vescovi italiani riuscì in parte a rendere meno pesante una situazione di grande precarietà.L’impegno di don Stacul si tradusse anche in diverse lettere e richieste d’aiuto rivolte alla Santa Sede, volte a sottolineare la situazione drammatica del clero isontino e la volontà del Goriziano di poter ritornare nella propria Patria.  Ma la Segreteria di Stato alla fine (nei primi mesi del 1918) gli rispose: “tali sono le circostanze che non crede opportuno tentare ora alcun passo in proposito, tanto più che esso, nonostante le più vive ed autorevoli raccomandazioni che si volessero interporre si prevede sarebbe destinato ad insuccesso”. E questo non dipendeva solo dalla stessa Santa Sede, i cui rapporti con lo Stato italiano non erano regolati da un trattato approvato da ambo le parti. Iniziarono così i lunghi e spesso difficili tentativi di far rimpatriare i sacerdoti internati, che, attraverso varie fasi, si sarebbero conclusi definitivamente solo nel corso del 1920.I reggenti militariA cercare di colmare il vuoto di cura spirituale presso le popolazioni civili rimaste senza sacerdote, intervenne l’opera di molti cappellani militari, che si presero cura anche dei civili, a seguito di precise indicazioni della Santa Sede che, dopo una serie di trattative ed aggiustamenti, arrivò ad ottobre 1915 ad istituire due Vicarie Foranee sul territorio occupato, una affidata al decano di Caporetto don Peternel ed una al decano di Cormons don Peteani sotto la supervisione di mons. Bartolomasi, ordinario castrense italiano.Secondo gli accordi intervenuti tra Santa Sede e governo imperiale sulla reggenza ecclesiastica delle zone occupate dalle truppe italiane, Mons. Bartolomasi avrebbe dovuto provvedere alla copertura degli uffici vacanti con “sacerdoti della zona vicariale, rimasti o ritornati in codesto territorio”. Vista la difficoltà pratica della cosa, il Vescovo Castrense fu costretto a nominare quali reggenti provvisori sacerdoti militari, provenienti da diverse diocesi. La scelta di solito cadeva su preti provenienti da diocesi vicine, che, grazie alla conoscenza dei costumi e della parlata locale, fossero facilitati nella loro azione pastorale. In generale la presenza dei reggenti militari nelle parrocchie rimaste prive dei loro legittimi rettori, oltre che una misura strettamente pastorale, va considerata come un tentativo da parte dei comandi militari di usare la loro opera per instillare nelle popolazioni locali l’amore per l’Italia. Per quanto riguarda l’atteggiamento della popolazione verso i reggenti, emerge un quadro piuttosto vario, ma caratterizzato da una certa riluttanza ad accettare tale propaganda. Erano gli stessi sacerdoti militari a rendersi conto di poterla insinuare solo con molta cautela nella predicazione e nell’istruzione catechistica ai fanciulli, per non offendere la sensibilità della popolazione. L’azione dei singoli reggenti finì quindi coll’essere maggiormente incentrata su tematiche essenzialmente catechetiche e devozionali.Nell’azione pastorale dei reggenti era centrale il tentativo di ricostruire un minimo di vita parrocchiale. Evidentemente i singoli reggenti militari, trovandosi in cura d’anime, cercavano di svolgere la loro missione nel migliore dei modi possibili. Già il contesto della guerra era difficile da affrontare di per sé: andava aggiunta per questi sacerdoti la difficoltà di comprendere le usanze anche liturgiche locali e la loro stessa mancanza d’esperienza, trattandosi infatti di giovani sacerdoti. Da parte del Vescovo castrense c’era molta attenzione anche per il problema dell’istruzione religiosa. Chiede infatti al Vicario foraneo di Cormons ragguagli a proposito dei sistemi in uso nel precedente regime oppure sulla compatibilità dei libri di religione italiani rispetto a quelli precedenti. Una sincera sensibilità pastorale che teneva conto, nei limiti del possibile, della condizione straordinaria in cui questi preti si trovavano ad operare.