Terapia del dolore: la strada è ancora lunga

Correva l’anno 1980 quando il dottor Giannino Busato arrivava a Gorizia per coprire il ruolo di Primario di Anestesia e Rianimazione presso l’Ospedale cittadino, dove fondò e organizzò il Reparto di Rianimazione. Tra gli iniziatori sul territorio nazionale dei servizi di Cure palliative e Terapia del Dolore, il dottor Busato in breve tempo portò il servizio dell’ospedale isontino ad altissimi livelli, sviluppando in particolare l’attenzione alle cure domiciliari.Cosa resta oggi di tutto questo? Quali problemi investono questo reparto? È stato proprio il dottor Busato a fare per noi il punto della situazione, non solo per quanto riguarda il territorio locale, ma volgendo lo sguardo anche al nazionale che, come vedremo, “non gode di ottima salute”.

Dottor Busato, può spiegarci in cosa consista la “Terapia del dolore”?

Il dolore è un compagno di vita degli uomini e soprattutto è legato molto spesso alla malattia. Il problema grosso è che tutti cercano di combatterlo, in qualsiasi modo, ma di fronte al dolore – forse anche perché non è una battaglia facile – per lungo tempo si è cercato di rassegnarsi, o meglio difendersi psicologicamente da esso. Quello che ha perseguitato soprattutto la cultura cristiana è che il dolore sia qualcosa di necessario per espiare, per guadagnare il Paradiso e via dicendo. Io ho avuto la fortuna di assistere alla rivoluzione: ero agli ultimi anni di università quando Pio XII convocò la Commissione che stabilì finalmente come fosse non solo lecito, ma umano combattere il dolore. C’è voluto poi tempo per accettare il tutto: al mio arrivo a Gorizia ho dovuto “combattere”, andando all’Ordine dei Farmacisti per pretendere che le farmacie avessero in dotazione la morfina – e stiamo parlando degli anni ’80 -.Oggi siamo al punto che, stando alle statistiche mondiali, il 40% dei pazienti che hanno subito un intervento chirurgico non ha trattamento del dolore sufficiente; è un’enorme e gravissima carenza medica. Ci si deve domandare: è colpa del medico, è colpa della cultura, o è magari colpa della struttura nella quale il medico lavora?

Come mai questa carenza? Che difficoltà comporta la gestione del dolore?

È stato accertato che il dolore è un “mostro” da combattere, ma a tutt’oggi non ci siamo armati molto, anche se i mezzi ci sono. Per il dolore grave – chirurgico, neoplastico e cronico -, che necessita molto spesso di cure invasive, questo diventa un problema. Io sono stato tra i primi in Italia a usare la tecnica peridurale, che comporta un medico esperto, che abbia tempo, disponibilità di spazi e di struttura adeguati. Dall’altro lato ha bisogno della totale comprensione da parte del paziente e dell’entourage del paziente, perché essendo un problema grosso, complesso, va giustificato: ci vuole consenso informato, il paziente deve sapere fino in fondo che cosa abbia – e qui bisogna combattere con la cultura della negazione, del segreto; oggi già molto meno, ma una volta presentissima -. Altra cosa importante è il consenso della comunità curante: il medico e chi lo assiste e la famiglia, che si presta a certe pratiche che magari non le spetterebbero.In tempi di crisi questo si evita, i tre tipi di dolore grave non hanno la risposta che dovrebbero avere e si passa a forme di terapia non sempre perfettamente efficaci, per via iniettiva o con patch cutanei. La richiesta di terapia è immensa e viene risolta con una risposta sbrigativa. Nella terapia del dolore inoltre è fondamentale il medico, figura che oggi manca perché le riduzioni del personale non permettono una presenza costante dello staff accanto al paziente con dolore grave. Accanto al medico, nella terapia del dolore grave, manca anche l’ospedale, con un’equipe dedicata al dolore infraospedaliero e postoperatorio. Oggi si fa una prescrizione e basta.

Come si colloca il nostro Paese nel panorama europeo? Se non in linea, quali passi sarebbe opportuno compiere?

Personalmente sono molto sconfortato. Ci sono equipe che si limitano a cure troppo blande: servizi di terapia del dolore invasiva, completi e dedicati, temo siano rari. Soprattutto si confondono due cose che vanno parallele: terapia del dolore e terapia palliativa; una non esclude l’altra, vanno di pari passo. Un esempio: un malato di cancro lo si aiuta facendogli passare il dolore ma ci si rende conto che ha tutta una serie di altri bisogni: dormire, mangiare – o essere alimentato -, di stare a casa sua…Un po’ in tutto il mondo e anche qui nel nostro Paese la situazione è generalizzata: la terapia del dolore è monca perché ci si accontenta, soprattutto in assenza di risorse professionali, non solo tecniche quindi ma anche umane.Sul territorio locale la situazione è specchio di quella nazionale. Negli anni ’90 si era arrivati ad avere in cura 150 malati distribuiti su un territorio molto vasto, che oltrepassava la provincia, ma bisognava essere sempre “sotto”, sempre presenti e disposti a spostarsi per visitare un paziente. La terapia del dolore, quando ha bisogno di essere invasiva, ha bisogno di un reparto ospedaliero di riferimento. Oggi non si è tornati indietro: si è precipitati indietro.

Quali sono le sue preoccupazioni per il futuro ospedaliero della nostra zona? È una soluzione la collaborazione con l’ospedale di Šempeter?

Ogni ospedale dovrebbe avere, all’interno del servizio di Anestesia, due o tre medici che – a rotazione, all’interno dell’ospedale ma anche con possibilità di uscire – si occupino di Terapia del Dolore grave. Dovrebbero essere medici esclusivamente anestesisti, perché sono loro a saper manovrare aghi, cateteri, che sanno infiltrare e via dicendo. L’equipe degli anestesisti di un ipotetico ospedale deve essere quindi ampliata: all’interno del servizio ci deve essere una fluidità di orario e la possibilità di andare al di fuori dell’ospedale, che comporterebbe la contemporanea presenza dell’equipe di Cure Palliative. Continuo ad immaginare questo, perché è quello che facevamo.Rispetto poi alla sanità transfrontaliera, credo che se ci fosse veramente volontà si andrebbe diretti. In Europa ci sono già molti esempi, ma continua – dopo decenni – a mancare Gorizia/ Šempeter-Vrtojba. Rendiamoci conto che gli ospedali distavano 300 metri l’uno dall’altro prima che quello goriziano venisse spostato; sarebbe stato possibile – se i due ospedali fossero stati associati – creare reparti comuni altamente specializzati… Ora mi sembra più complicato. All’epoca in cui se ne cominciava a parlare si vedeva un luogo che era pensato come punto di confluenza delle culture, delle università; su una Cittadella Sanitaria comune sarebbe stata facile la confluenza scientifica di esperienze.Ora c’è il GECT che sta ripensando alla sanità transfrontaliera, ho tuttavia alcuni dubbi: parla di “network” che si basi sulle eccellenze esistenti, faccio però fatica a trovarne da parte nostra… Il GECT parla anche della Casa del Parto: ci sono esempi di queste in Europa, per esempio in Svizzera, in Inghilterra e proprio in quest’ultima devono essere a “distanza di passi” dall’ospedale di riferimento per questioni di sicurezza, in modo tale da intervenire prontamente in caso di urgenza; qui da noi questo credo sia un problema, trovare una perfetta collocazione. Rendiamoci conto che, statistiche alla mano, il 15% circa delle donne che arrivano al parto hanno un problema, grosso, che comporta un intervento chirurgico; di questo 15% la metà è composta da donne che non hanno avuto nessuna avvisaglia, che avevano una gravidanza perfettamente fisiologica. Sono necessarie quindi anche le giuste competenze professionali per poter intervenire.Sempre il GECT punta a progettualità condivise in ambito di Salute Mentale e contrasto all’esclusione sociale: va benissmo ma manca un Centro di Diagnosi e Cura delle malattie psichiatriche – al Centro di Salute Mentale pazienti già diagnosticati vengono seguiti e curati – e nemmeno gli sloveni sono organizzati in questo.Quello che ritengo quindi che potrebbe essere realizzato sta nell’Emergenza e Pronto Soccorso comune e in un discorso legato all’accessibilità ai servizi per tutta la popolazione.