Se il fenomeno migratorio sconta una non-programmazione

Di migranti, richiedenti asilo, rifugiati, si continua a parlare. È, purtroppo, un argomento sempre di attualità e, pro o contro che ci si ponga, queste persone fanno parte del tessuto di molte città, tanto del territorio nazionale quanto, guardando al locale, del territorio diocesano. Abbiamo incontrato Mauro Perissutti, fondatore e presidente de “Il Mosaico”, consorzio di cooperative sociali che, a Gorizia, gestisce i due centri goriziani collocati al Nazareno e al San Giuseppe, ma si occupa anche di molto altro all’interno dell’ambito delle politiche socio – assistenziali.

Presidente, qual è la mission de “Il Mosaico” e da quali realtà è composto?

La nostra mission parte dalla Legge 381 “Disciplina delle cooperative sociali”, con la volontà di perseguire l’interesse generale delle comunità, essere strumento delle stesse per organizzare il più possibile in forma sussidiaria le risposte ai bisogni.Attualmente il consorzio è composto da 12 cooperative, tutte con sede sui territori di Udine e Gorizia; siamo partiti infatti con una definizione territoriale legata all’area della Diocesi di Gorizia, anche la scelta del nome richiama il radicamento a quella comunità e a quella cultura. Ci sono stati poi dei piccoli processi aggregativi che ci hanno portato alle esperienze cooperative udinesi: non si può rimanere “bloccati” all’interno di una definizione di confine.Come esperienze, quelle all’interno de “Il Mosaico” sono diverse: ci sono cooperative molto intrecciate tra loro all’interno del consorzio, altre che lo vivono, partecipano e lo sostengono sotto forma di servizi o con progetti particolari.

Quali sono i principali settori di attività di questa realtà consortile?

Attualmente, oltre alle esperienze del Nazareno e del San Giuseppe a Gorizia, sul territorio da noi coperto offriamo dei servizi al settore degli anziani, gestiti non direttamente da “Il Mosaico” ma da alcune nostre cooperative, in particolare nella gestione di una casa di riposo ad Aiello; ci sono poi il settore educativo, socioeducativo e quello della salute mentale, all’interno del quale è appena partito il nuovo contratto con l’Azienda Sanitaria n.2 “Bassa friulana – Isontina” per la gestione della riabilitazione, con la coordinazione di progetti terapeutici personalizzati. C’è poi l’attività realizzata per favorire i percorsi di inserimento lavorativo delle persone con problemi di salute mentale e c’è poi appunto questa nuova pagina dell’accoglienza dei richiedenti asilo, nata un po’ sull’onda dell’emergenza e sulla richiesta della Caritas diocesana di Gorizia di avere un partner imprenditorialmente strutturato per affrontare quest’emergenza. Man mano l’operato si è allargato anche sull’udinese dove gestiamo una settantina di posti, dislocati in maniera più frammentata in appartamenti.

Da quando gestite i due centri di Gorizia – prima il solo Nazareno, poi anche il San Giuseppe -, che situazione avete dovuto affrontare all’inizio e che situazione c’è invece al momento attuale?

Sicuramente all’inizio ci siamo trovati a muoverci in una situazione di emergenza, si puntava sostanzialmente a dare una prima accoglienza e un ricovero dignitoso a queste persone, che erano accampate nelle tendopoli e sulle rive dell’Isonzo. Da questa prima esperienza man mano si sono strutturati tutta una serie di servizi di carattere culturale, con i corsi di italiano, sanitari e anche di studio del fenomeno dal punto di vista psicologico, per affrontare meglio l’accoglienza. Per gli aspetti più clinici e specialistici vengono inoltre realizzati dei servizi pubblici da parte dell’Azienda Sanitaria, con la quale ci integriamo, sia per gli aspetti di screening che per quelli del disagio psico – sociale. Si sono poi man mano affinati i rapporti anche con Prefettura, Questura, Croce Rossa Italiana, con i quali c’è un’ampia collaborazione.I servizi si stanno di volta in volta strutturando; hanno un livello che mi pare dignitoso e sono ben governati – non abbiamo fino ad adesso avuto problemi di ordine pubblico e di gestione delle persone e se ci sono stati sono rimasti nella dimensione dell’episodio. Non ci sono nemmeno mai stati grandi episodi di intolleranza.Si continua a vivere però sostanzialmente in una dimensione di non programmazione del fenomeno migratorio, anche se è una considerazione questa a carattere nazionale; manca un pensiero compiuto sul fenomeno delle migrazioni, non è governato: noi cerchiamo di gestirlo. Diciamo che oggi i meccanismi di gestione dell’emergenza sono abbastanza rodati, funzionano, le persone vengono prese in carico, fanno i loro percorsi… però il tema è più vasto: il nostro Paese cosa vuole fare rispetto alle Politiche di accoglienza? Quanti e come? E quelli che non ci stanno, dove? Queste sono le domande che restano ancora da affrontare.

Come si svolge una “giornata tipo” di un richiedente asilo?

C’è una differenza abbastanza netta tra l’esperienza goriziana e le altre, in particolare quelle nell’udinese, che derivano da due aspetti: la dimensione del luogo di accoglienza e la disponibilità dei Comuni. Nei Comuni dell’udinese da subito si è cercato di “tenerli impegnati”, per tanti motivi: per una restituzione alla comunità locale accogliente e per realizzare qualcosa a favore della collettività. Qui a Gorizia il problema è che si è fatta fino ad adesso fatica – nell’ultimo mese si è sbloccata un po’ la situazione – nel trovare un interlocutore in un’associazione che ci consenta di svolgere attività effettivamente esterne alle nostre, in forma regolare. Ora andremo, per esempio, a fare dei lavori di sfalcio e pulizia di alcune aree con l’accompagnamento di alcuni volontari e il supporto dei nostri operatori professionali.Sostanzialmente però la giornata di queste persone è una giornata di noia: oltre a svolgere le loro pratiche burocratiche, non hanno poi molto altro da fare; anche i corsi di Italiano al Nazareno ci sono, ma non si possono seguire tutti contemporaneamente e vengono fatti con poche persone alla volta.

Come vede l’andamento di questo fenomeno? Di cosa si necessita, nello specifico, sul territorio?

Per quanto riguarda l’andamento, è un fenomeno complesso. Personalmente non sono un idolatra dell’accoglienza diffusa, perché se da un lato favorisce l’integrazione, dall’altro presenta alcuni problemi di gestione; molti di meno la gestione sullo stile dell’”albergaggio”. Parlando però di un percorso in cui si preveda che il flusso di persone venga pensato, gestito e indirizzato verso un modello di società che li includa e abbia bisogno anche delle loro risorse e capacità, allora è chiaro che sia da prediligere quello dell’accoglienza diffusa, dove le persone possono trovare radicamento con il territorio, con le comunità e con le altre persone, non rimanendo avulse dalle relazioni interpersonali. Forse ci vorrebbe maggiore collaborazione tra tutti i Comuni: se tutti ne accogliessero 8 o 10 sarebbero innanzitutto numeri gestibilissimi per qualsiasi ente comunale, favorirebbe poi l’integrazione con la partecipazione dei volontari ma anche della cittadinanza, come avviene con i corsi di lingua inglese o alcuni corsi tecnici, di giardinaggio o di orticoltura; nei paesi c’è molta di questa sensibilità.La grande richiesta quindi è un pensiero politico alto sulla gestione dei fenomeni migratori, tenendo presente che, per quanto credo, non finirà a breve: le condizioni di diseguaglianza – al di là delle situazioni di conflitto – che si sono sviluppate nel mondo in questi decenni, porteranno comunque a questa sorta di “rivoluzione disarmata”, che manderà queste persone alla ricerca di un benessere dove immaginano lo possano trovare. Credo che questo ci porterà alla necessità sia di integrare queste persone, sia alla necessità di attivare meccanismi che riducano questo squilibrio tra le parti del mondo. C’è bisogno di una politica europea che regolarizzi le dinamiche e gli approcci all’accoglienza.

Come esperienza personale e umana, cosa Le sta dando il consorzio Il Mosaico?

Lo seguo dalla sua fondazione, nel 1994, e sto cercando di prepararmi per una fuoriuscita, per lasciare spazio a nuove risorse che ci sono. Sicuramente è un’esperienza bellissima, sia per le persone con cui si lavora, sia per le persone per cui si lavora. L’essere riusciti poi, con le relazioni che abbiamo saputo generare, a fare tante cose per questo territorio, è una soddisfazione, una gioia: abbiamo sperimentato le prime assistenze domiciliari, le prime assistenze educative nei nuclei famigliari, l’innovazione nel campo della salute mentale… sono solo alcune delle cose che ci fanno sperare di aver adempiuto a quella mission di perseguire l’interesse generale di queste persone, di queste comunità e di questi territori.