Quei giovani sempre più isolati dal mondo esterno

La Cooperativa Sociale Onlus “Aesontius” di Gorizia da lungo tempo si occupa di salute mentale, offrendo sostegno e terapia – anche molto innovativa – ai pazienti in carico e alle loro famiglie. Abbiamo incontrato l’operatrice Sonia Di Sopra, che ci ha illustrato tutte le attività che vengono svolte – all’interno della comunità, ma non solo – per far “crescere” un po’ alla volta queste persone. Ci ha anche raccontato di una forma di disagio, poco nota ma purtroppo molto presente anche sul territorio, che porta i giovani e giovanissimi ad un totale isolamento dal mondo esterno, “facendosi bastare” ciò che hanno, ma che è solamente virtuale.

Dottoressa Di Sopra, la Cooperativa “Aesontius” gestisce l’accoglienza e il supporto psicologico al Nazareno, ma in realtà è anche molto altro oltre a questo…

Esattamente, ci occupiamo di salute mentale e siamo nati proprio con questo scopo. Da 13 anni gestiamo la Comunità “La Casetta” in via Vittorio Veneto, all’interno del Parco Basaglia, una struttura dell’Azienda Sanitaria. È una comunità psichiatrica terapeutico – riabilitativa sulle 12 ore; ciò significa che l’operatore è presente dalle 8 del mattino fino alla sera alle 20. Questa struttura dispone di 5 posti letto e fornisce sostegno diurno anche alle persone non residenti, che svolgono attività terapeutico riabilitativa insieme a noi. Quelli che non risiedono sono di due tipi: o persone che non hanno mai gravitato attorno alla comunità, segnalate a noi dal CSM per un sostegno ludico – sportivo durante le giornate, oppure sono ex residenti della comunità, dimessi e che ora vivono in autonomia e che continuano a frequentare in diurno per alcune attività. Attualmente ci sono 4 residenti – il posto libero verrà occupato a brevissimo – e un diurno che partecipa all’attività di Lettura e Scrittura Creativa.Ci sono poi alcune persone che ruotano attorno al Gruppo Giovani, un’altra delle nostre attività che abbiamo in gestione da marzo di quest’anno: un momento di incontro settimanale che ha la sua sede principale a Gradisca d’Isonzo ma che, a seconda delle attività programmate assieme ai ragazzi, può spostarsi in altri luoghi. A questo Gruppo partecipano persone che provengono da Monfalcone e da Gorizia, che non seguiamo noi direttamente ma partecipano alle attività.

In cosa consiste questo “Gruppo Giovani”?

Esiste da molto tempo e inizialmente era gestito dal Centro di Salute Mentale di Monfalcone. Era nato come attività di sostegno psicologico ai ragazzi, unitamente ad attività legate al “saper fare” per mezzo dei “Gruppi Parola” – gruppi di discussione che univano i ragazzi e che si strutturavano a seconda dei momenti come sostegno, sfogo, conoscenza o come momento più formativo, evidenziando le abilità sociali -. Una volta passato in nostra gestione, l’obiettivo si è ampliato: oltre al “Gruppo Parola”, programmato una volta al mese, si gestiscono delle attività che possano essere di attrazione per i giovani: un uscita serale per un panino o una pizza, teatro, musica, godendo di tutto ciò che il territorio propone. In questo momento stiamo anche ristrutturando insieme ai ragazzi la sede gradiscana, coinvolgendoli affinché quel luogo diventi il loro luogo.Non c’è niente di imposto da noi, lo scopo è di far emergere i loro bisogni: una cosa complicata, anche perché il momento storico vede tantissimi ragazzi, molto giovani (la media d’età dei partecipanti è di 25 anni), soprattutto nel territorio del monfalconese ma anche del goriziano, che stanno chiusi in casa: i bisogni non emergono perché proprio non c’è un contatto con gli operatori. Siamo appena partiti con un gruppetto di circa 10 ragazzi e stiamo lavorando per cercare di coinvolgere anche quelle persone che hanno più difficoltà ad uscire, in collaborazione con gli operatori del servizio pubblico.

Come si presenta questo disagio? È un fenomeno nuovo?

Si tratta di ragazzi che hanno o hanno avuto un certo successo scolastico – quindi le abilità ci sono – ma sono arrivati a un punto della loro vita in cui si fanno bastare quello che hanno: computer, smartphone, tablet, tutto quello che permette loro di non entrare in contatto diretto con la realtà “viva” della società ma con la realtà virtuale; spesso non escono nemmeno dalle loro stanze e quindi anche in famiglia c’è un problema ad identificare e ad affrontare queste persone. Sono poi spesso persone che non lavorano e non studiano e questo è un fenomeno ancora più articolato. Nonostante abbiano sufficienti capacità si fermano nella loro “evoluzione”: non hanno occupazione, non hanno impegno scolastico, hobby, amici reali. La difficoltà da parte degli operatori della Salute mentale nel cercare di “agganciare” queste persone è un grande problema, anche perché quello che si cerca di fare  – sia a livello del pubblico, sia del privato sociale – è quello innanzitutto di evitare lo stigma e, nella misura in cui è possibile, cercare di fare in modo che questi ragazzi entrino in contatto con il Centro di Salute Mentale solamente nei limiti del necessario e che tutto il resto della loro vita sia basato e agganciato su quello che c’è sul territorio: sul sociale e sulle persone che non afferiscono a questi servizi, per non farli troppo assorbire dai circuiti della Salute mentale, dai quali – se troppo assimilati – è complicato uscire. Con i giovani si può fare, con le persone invece che hanno una storia più lunga di malattia è un po’ più difficile.Si tratta di un fenomeno che non si conosceva, o meglio, di cui non si parlava ma in realtà c’è ed è presente già da un po’ di anni.

Guardando proprio alle persone, chi sono i vostri seguiti? Come si svolge il percorso insieme a voi?

Le persone che vengono inserite nella nostra comunità sono persone che conservano delle abilità sociali e lavorative; hanno delle malattie medio – gravi (psicosi, schizofrenia, disturbi di personalità). Ogni caso è poi diverso dall’altro: ci sono persone che entrano in comunità in un momento di crisi, di acuzie, e non hanno in quel particolare momento un lavoro e una rete sociale adeguata; altre invece che portano con sé un bagaglio di vita sociale, lavorativa, affettiva molto ampio. Una volta valutato il caso – e quindi i bisogni e soprattutto gli obiettivi – con la persona e il Servizio che ce la segnala, viene stabilito un programma terapeutico – riabilitativo, che mira a ridare alla persona le abilità che aveva e che può aver perduto, oppure proporre abilità nuove: quando per esempio si parla di inserimento lavorativo, spesso queste persone hanno molti fallimenti alle spalle; con l’accompagnamento che noi operatori in comunità riusciamo a dare loro, scoprono alcune abilità e, guadagnando fiducia in sé stessi, riescono a mantenere quell’impegno lavorativo.La persona viene accolta a 360°: ci si occupa dell’aspetto medico e viene dato sostegno anche alla famiglia – anche perché senza una storia non si può impostare alcun programma terapeutico -. La famiglia è coinvolta in maniera attiva: per conoscere il sistema di cui fa parte la persona, dando un sostegno psicologico e per conoscere il percorso che sta compiendo il proprio famigliare.

Come si svolge una “giornata tipo”? In che attività sono coinvolti?

Compiamo tantissime attività sportive, non c’è giorno della settimana in cui non ci sia qualcosa: basket, calcio, pallavolo, ping – pong, freccette, nuoto, laboratorio di lettura e scrittura creativa e fotografia. Inoltre, cosa importante, si devono occupare dei propri spazi, non abbiamo qualcuno che svolge le pulizie ma siamo noi che li sollecitiamo a prendersene cura – è un modo per avere anche più cura di sé stessi -. Giornalmente si occupano della pulizia degli spazi individuali e comuni, della preparazione dei pasti e facciamo insieme la spesa e i vari acquisti, anche per far loro capire il valore del denaro.Dalle 20 alle 8 loro stanno da soli. C’è copertura notturna da parte di uno dei nostri operatori nei primi giorni di inserimento in comunità – 2 o 3 giorni, qualche volta una settimana -, per tranquillizzare un po’ la persona che arriva in un ambiente completamente nuovo e, da parte nostra, per osservare quello che accade.Tutte le persone ospitate lavorano, si spostano in modo autonomo con i mezzi pubblici e il tempo libero, gli acquisti, le pratiche burocratiche sono svolti alla nostra presenza. La scelta di avere una comunità sulle 12 ore è mirata ad abbandonare la concezione “manicomiale”. Insieme a loro si lavora molto sulla responsabilità e sulla fiducia, è un po’ come quando si cerca di dare man mano all’adolescente che sta crescendo un po’ di libertà in più. Finché loro sentono che noi abbiamo fiducia, che stiamo permettendo loro di crescere e di sbagliare, loro crescono e anche facendo errori si responsabilizzano.

Una curiosità: in cosa consiste il laboratorio di lettura e scrittura creativa?

È gestito da Giovanni Fierro, uno dei nostri operatori ed è nato all’interno della comunità inizialmente per i partecipanti e gli addetti, ma pian piano si è espanso e possono ora partecipare anche persone esterne; in questo momento abbiamo esportato l’attività al Punto Giovani di Gorizia. Stiamo cercando di lavorare per abbattere i confini e fare in modo che le persone entrino nei nostri mondi e che i nostri ragazzi entrino nella maniera più naturale possibile nel contesto.Nel laboratorio i ragazzi, attraverso la guida dell’operatore, riflettono insieme su uno spunto, che può essere una frase tratta dalle letture consigliate, o su una parola. Dalla riflessione e dal contributo che ciascuno può dare nascono dei veri e propri brani, testi, poesie… È un momento in cui ognuno esprime quello che ha dentro di sé ma anche ciò che coglie e che vede. Vengono anche organizzate delle serate in cui si accompagna la lettura di questi testi con la musica: è un lavoro molto basato sulle emozioni, sul loro riconoscimento e sulla loro espressione.