Amunì: riflessione sulla paternità

“Questa è la storia di una famiglia, una grande famiglia. Tanti figli, tutti maschi perchè papà diceva che teneva il seme forte e mamma sapeva coltivare bene. Un giorno papà partì. Per dove? Non si sa. Per quanto? Non ce lo disse. Venti anni…e oggi, finalmente, torna a casa. Nostro padre torna a casa e facemu festa. Una grande festa!” Questo l’incipit di “AMUNÌ”, lo spettacolo portato sul prestigioso palcoscenico del teatro Verdi di Gorizia dalla compagnia del carcere Morandi di Saluzzo, formata da detenuti, ex detenuti e “aspitanti detenuti”, come uno di loro ha scherzosamente definito, alla fine della rappresentazione, gli attori “esterni” presenti in scena. Un grande successo, sottolineato dal lunghissimo applauso finale del numeroso pubblico presente, anche questa ventiseiesima replica dello spettacolo, prodotto nel 2013 dall’associazione Voci erranti, scritto e diretto da Grazia Isoardi, con le coreografie di Marco Mucaria, già rappresentato nella casa di reclusione di Saluzzo e andato in tour all’esterno del carcere sui palcoscenici italiani e nelle scuole. L’Associazione Voci Erranti, dall’anno 2002 gestisce il Laboratorio Teatrale permanente per i detenuti della Casa di Reclusione di Saluzzo ed ogni anno produce un nuovo spettacolo aperto alla cittadinanza e agli istituti scolastici della Provincia raggiungendo oltre duemila presenze di spettatori. Da sempre, in accordo con le autorità competenti, il gruppo replica gli spettacoli in teatri esterni, anche fuori regione (Genova, Roma, Firenze, Milano, Torino…), perché è una realtà di teatro in carcere riconosciuta di eccellenza e raccoglie sempre notevoli consensi sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori.Amunì, la performance cui abbiamo assistito giovedì scorso, è la storia di 9 fratelli che vivono l’attesa del ritorno del padre, che ha lasciato la nidiata di figli vent’anni prima. Un ritorno atteso, celebrato con una festa di giochi e ricordi dell’infanzia, attraverso i quali i protagonisti ritornano a loro volta bambini per poi prendere consapevolezza della propria paternità. “…Che cosa vuol dire essere padre? Chi me lo può insegnare? C’è un altro Padre? Cosa sarebbe cambiato nella mia vita se papà fosse stato presente? ….”. Lo spettacolo parte dalla riflessione dei detenuti, nella fase laboratoriale, sul tema della paternità, dell’essere contemporaneamente figli e padri, padri assenti e figli difficili, figli cresciuti senza padri non perché orfani, quanto privi di padri autorevoli, portatori di valori e testimoni delle responsabilità della vita. Ora questi figli vivono nell’attesa del ritorno alla libertà e nel frattempo, diventati loro stessi genitori, attendono, novelli Telemaco, il ritorno del padre. “Telemaco aspetta che la nave di suo padre ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci.… – scrive Massimo Recalcati, nell’introduzione al suo saggio “Il complesso di Telemaco”. – Lo sguardo di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca… La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’insidia di coltivare un’attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai…. Le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni… Siamo stati tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse.””Amunì” è nato all’interno del laboratorio teatrale in carcere – racconta Stefano –  riflettendo sul concetto di paternità e responsabilità, chiedendoci che figli siamo, cosa vuol dire essere contemporaneamente figli e padri”.Un lavoro sul concetto di paternità e responsabilità, di presenza e assenza, di trasmissione di saperi, valori, affetti, di famiglia, di ricordi comuni.”Le frasi sono le nostre, scaturite dai ricordi, come il quadro della partita di calcio tratto dal racconto di un detenuto colombiano che ricordava, legato al padre, la partita del cuore che gli ha emozionato la vita”. Una scena davvero splendida e coinvolgente.Nove protagonisti tutti diversi, impeccabili in camicia bianca e cravatta, affrontano il tema della fragilità personale e famigliare, le nostalgie d’infanzie negate, e mascherano la malinconia, la tristezza, il sapore amaro dell’assenza nell’atmosfera della festa e nel dinamismo della danza. Una rappresentazione sviluppata su diversi piani, ognuno ricco di suggestioni ed emozioni: divertente e drammatica, provocante e malinconica. E ogni piano brillante e coinvolgente.A introdurre lo spettacolo il saluto e i ringraziamenti a tutti coloro che hanno permesso e contribuito alla realizzazione del Festival, da parte di Elisa Menon e Marco Fabris, responsabili dell’Associazione Fierascena, promotrice di “Se io fossi Caino” – Festival di Teatro e Arte del carcere di Gorizia, di cui la serata teatrale rappresentava la seconda tappa. Sono seguiti quindi gli interventi di don Paolo Zuttion, direttore della Caritas diocesana, del dott. Alberto Quagliotto direttore della Casa Circondariale di Gorizia, del Sindaco Ettore Romoli, dell’Assessore regionale alla cultura sport e solidarietà Gianni Torrenti, della senatrice Laura Fasiolo. Tutti hanno lodato l’iniziativa e sottolineato l’importanza delle relazioni tra la realtà del carcere e la comunità in cui è inserita. “E’ bene – ha insistito don Paolo – che il carcere entri nella comunità cittadina e la comunità entri in carcere”. Significativo a questo proposito l’inatteso momento finale che ha visto il coinvolgimento degli spettatori, invitati dai protagonisti di AMUNÌ, in una vivace danza comune tra i corridoi della platea.Ancora una volta l’esperienza del teatro sociale, a cui ci ha educati in questi anni Fierascena, ci ha fatto sperimentare che nei rapporti tra realtà diverse la conoscenza fa la differenza, abbatte le barriere, rompe gli schemi. L’incontro diretto con le persone, con Alberto, Eric, Francesco, Manuel, Marco, Nabil, Rayan, Radouane, Simone, Stefano… fa superare gli stereotipi; i nomi propri di persona, i singoli volti, gli sguardi che si incrociano sconvolgono i clichè dei nomi comuni di ruolo, di categorie: “i detenuti”, “i rifugiati”… e mettono le basi per nuovi approcci più veri e completi ai problemi e alle situazioni che la vita e la storia ci pongono davanti: carcere, emigrazione, emarginazione… aiutano a spostare la prospettiva dall’io-centro-del-mondo all’altro, al tu personale, soggetto reale, concreto con ricchezze e miserie… Lo spettacolo dell’altra sera sembrava offrire una risposta all’obiezione, abbastanza comune, colta e proposta una di queste mattine al dott. Sbriglia, Provveditoe delle Carceri per il Triveneto, dall’intervistatore di Buongiorno Regione: “Perché una persona che ha una colpa e deve pagare per questa colpa, deve essere intrattenuta in azioni di tipo ricreativo come il teatro?”… Alla fine dello spettacolo abbiamo avuto la sensazione di aver assistito a un obiettivo raggiunto di crescita artistica ed umana nel percorso di formazione offerto ai detenuti, un’occasione di riscatto sociale e di costruzione di ponti tra la realtà reclusa e quella libera. “Il teatro sociale di qualità, – il commento finale di Elisa Menon – fatto con competenza, professionalità e con la dolcezza decisa di chi fa il suo lavoro con rispetto e con responsabilità, diventa valore culturale, condivisione alta di informazioni, scambio profondo di esperienza.”Il terzo ed ultimo appuntamento di questo Festival è fissato per il prossimo venerdì, alle 16.30, nella casa Circondariale di Gorizia, dove i detenuti, guidati dalla regista Elisa Menon, presenteranno la performance “Courage – Ritornare a casa”, atto finale del laboratorio “Il Teatro delle ceneri”, realizzato in carcere nel corso di tre mesi dall’Associazione culturale Fierascena.