70 anni fa il Trattato di Parigi

“Con la firma del trattato di pace imposto all’Italia si è posta a Parigi un’altra pietra su questa pace che, mentre offende, umiliandolo, il nostro Paese, suona vergogna alle Potenze rappresentate dai quattro grandi i quali, trascurando le ragioni di libertà e giustizia per le quali è stata sanguinosamente combattuta la seconda guerra mondiale, hanno egli stessi, pur vincitori, perduto la pace. Il trattato-diktat viola apertamente la volontà del popolo istriano il quale ha manifestato e manifesta oggi con l’esodo dei polesi la espressa volontà di restare unito alla patria.(…) Nell’abbassare oggi il nostro tricolore che domani rifulgerà al sole, maestro di libertà e di giustizia al mondo risuoni ancora il nostro grido di fede mentre le nostre navi solcando l’Adriatico ci portano sull’altra sponda in esilio volontario. Viva l’Italia!” Così mercoledì 12 febbraio 1947 apriva il numero de L’arena di Pola, dopo due giorni dalla firma del trattato di pace fra l’Italia e le Potenze Alleate ed Associate, avvenuta a Parigi il 10 febbraio di quell’anno.Una data tanto significativa quanto tragica per migliaia di italiani, che non a caso venne scelta nel 2004 dallo Stato per commemorare ogni anno gli eventi del tragico periodo del secondo dopoguerra, per troppi decenni posto nel dimenticatoio. Così’ appunto è nato il Giorno del Ricordo.Una situazione politica e sociale -quella della regione istriana- drammatica fin dall’armistizio dell’8 settembre 1943. La provincia, italiana culturalmente ma politicamente dal 1920, venne prima annessa al terzo Reich e successivamente occupata dalle truppe jugoslave titine che attuarono una seria politica persecutoria nei confronti dei cittadini di lingua italiana, anche a guerra finita, sfociata in processi politici, esecuzioni sommarie e occultamento dei cadaveri nelle caratteristiche cavità carsiche tristemente note come “foibe”. L’occupazione titina indusse già dal 1944 molti italiani a lasciare i propri averi e la propria vita istriana per emigrare all’altra sponda dell’Adriatico, con la speranza di ritornare in tempi più propizi. Il fenomeno chiamato oggi Esodo Istriano coinvolse più di trecentocinquantamila italiani istriani e durò dal 1943 al 1947. In questo periodo l’Arena di Pola quotidianamente ha rappresentato uno strumento prezioso per ottenere informazioni riguardo all’organizzazione delle partenze, alla sistemazione dei profughi nei vari campi e alle notizie politiche di interesse comune. Particolarmente interessanti sono le letture del notiziario “comitato esodo” nel quale venivano fornite tutte le informazioni necessarie per l’imbarcazione dei mobili e delle masserizie, l’acquisto dei biglietti per i piroscafi in partenza dai maggiori porti, con cadenza quasi giornaliera. Con timore per l’occupazione jugoslava e il dispiacere nel lasciare case, terreni e beni immobili nelle terre amate ma oramai invivibili, tutti partirono con la speranza un giorno di poter tornare nelle loro case da Italiani. Speranza che definitivamente si spense con la firma del trattato di Parigi esattamente 70 anni fa con il quale, fra le durissime condizioni imposte all’Italia, la provincia dell’Istria entrava ufficialmente a far parte del territorio Jugoslavo.

Il trattato di pace dalla Gazzetta UfficialeIl trattato trova la sua esecuzione nel Decreto Legislativo del Capo Provvisorio dello Stato n.1430 del 28 novembre 1947 e pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale del 24 dicembre 1947. Il testo del trattato firmato in febbraio, in italiano e inglese, preceduto dal decreto di attuazione, è riportato integralmente. Nella prima parte, riconosciute le parti che vanno a stringere l’accordo (le potenze alleate e l’Italia) si procede alla ridefinizione dei confini fra lo stato italiano e la Francia, la Jugoslavia e l’Austria. Le durissime condizioni in merito alle modifiche del confine orientale sono riportate all’art. 3 della parte I: “Le frontiere fra l’Italia e la Jugoslavia saranno determinate nel modo seguente: il nuovo confine seguirà una linea che parte dal punto di congiunzione delle frontiere dell’Austria, Italia e Jugoslavia, quali esistevano al 1° gennaio 1938 e procederà verso sud, seguendo il confine del 1938 fra la Jugoslavia e l’Italia fino alla congiunzione di detto confine con la linea di demarcazione amministrativa fra le provincie italiane di Udine e di Gorizia”.Segue la puntuale e dettagliata spiegazione del confine a partire da Mernico nella Valle dello Judrio, dove il confine abbandona la linea di demarcazione fra le provincie e prosegue frammentando la regione del Collio, ed elencando tutti i paesi e cittadine che sarebbero rimasti ad uno stato o all’altro. La prima e lampante conseguenza della modifica del confine viene spiegata all’articolo 11: “L’Italia cede, mediante il presente Trattato, in piena sovranità alla Jugoslavia il territorio situato fra i nuovi confini della Jugoslavia (…) quali esistevano il 1° gennaio 1938, come pure il comune di Zara (…)” Numerose furono le amputazioni territoriali legate al ridisegno dei confini: l’Italia perse la parte dell’altopiano carsico ad est di Gorizia, la città di Fiume, la penisola istriana, la città di Zara (ceduti alla Jugoslavia) e Trieste con il territorio circostante (costituita territorio libero). A conseguenza di ciò, le persone di nazionalità italiana che sarebbero volute rimanere in detti territori avrebbero perso la cittadinanza italiana divenendo a tutti gli effetti cittadini Jugoslavi. Un ulteriore clausola, contenuta nell’articolo successivo obbliga l’Italia a “restituire tutti gli oggetti di carattere artistico, storico, scientifico, educativo o religioso (compresi tutti gli atti, manoscritti, documenti e materiale bibliografico) come pure gli archivi amministrativi (pratiche registri, piani e documenti di qualunque specie) che, per effetto dell’occupazione italiana vennero rimossi fra il 4 novembre 1918 ed il 2 marzo 1924 dai territori ceduti alla Jugoslavia in base ai trattati firmati a Rapallo il 12 novembre 1920 e a Roma il 27 gennaio 1924”.

Gli esuli a GoriziaA seguito delle vicende belliche e post belliche, anche la città di Gorizia fu interessata dall’arrivo in massa di moltissimi profughi istriani e dalmati. In primo luogo vennero sistemati provvisoriamente alle “Casermette” in via MonteSanto, grande complesso in cui molti trovarono ospitalità in condizioni assai precarie dovute alla non buona condizione degli stabili, al sovraffollamento e alla straordinarietà della situazione. Il neo eletto sindaco di Gorizia Ferruccio Bernardis nel 1949 relazionò la drammatica situazione degli esuli a Gorizia al presidente UNRRA-CASAS, il comitato costituito nel 1946 su base nazionale per gestire i fondi indirizzati ai senzatetto. “Gli esuli goriziani e istriani finora affluiti in città superano infatti le quattromila unità. In queste condizioni è urgente provvedere, anche in considerazione della delicata situazione di Gorizia, posta a contatto diretto del confine orientale, e quindi osservata nelle manifestazioni della sua vita da oltre frontiera. L’amministrazione comunale non può evidentemente risolvere un problema di così grave mole con i suoi mezzi” così scriveva il sindaco, che esattamente un mese dopo ricevette una missiva in risposta in cui gli veniva comunicata la decisione da parte del presidente dell’Unrra di costruire 88 appartamenti su un area di 20.000 mq da assegnarsi ai profughi giuliani. Il 21 aprile 1949 l’amministrazione comunale scelse per questo importante progetto la zona del fondo denominato “Campagnuzza” cedendo l’area all’Unrra e provvedendo alla posa delle condutture stradali per l’acqua potabile e l’illuminazione. La divisione topografica della Campagnuzza prevedeva inizialmente l’istituzione della piazza Fiume, via Pola e via Zara. Durante i lavori il progetto topografico venne modificato con l’inserimento delle vie Capodistria e Campagnuzza. Nel territorio vennero progettati 22 edifici ad uso abitativo composti da 4 appartamenti ciascuno, su due livelli. Gli alloggi sarebbero stati assegnati a domanda tramite un’apposita graduatoria con possibilità di riscatto negli anni a venire. Il 19 febbraio 1950 avvenne la solenne inaugurazione del villaggio, con la consegna delle chiavi agli usufruttuari da parte dell’ambasciatrice americana. Un anno più tardi, sempre nella Campagnuzza venne inaugurato il collegio “Filzi” struttura di accoglienza per ragazzi che prese il nome dall’omonima istituzione presente in passato a Pisino, che dal 1951 al 1975 accolse centinaia di ragazzi figli di profughi istriani a cui venne data l’istruzione necessaria per garantire loro un futuro dignitoso. Assieme alle abitazioni venne costruita la scuola elementare Giovanni Ferretti e furono impiantati i primi negozi di quartiere, il benzinaio Manzin, il barbiere Valenti, il tabaccaio Giorgolo e il sarto Kain. Fin dall’inizio grazie alla forza e alla lungimiranza di Don Luciano Manzin, sacerdote anch’egli esule e originario di Albona d’Istria, la vita spirituale del quartiere fu la vera componente aggregativa: senza un luogo di culto gli abitanti iniziarono a ritrovarsi in una vecchia stalla adibita a cappella nei pressi del collegio Filzi. Ben presto vennero progettati una chiesa-santuario per il quartiere e l’erezione canonica della parrocchia.

(1. continua)